01 dicembre 2017

I Big Data salveranno chi investe in arte? Ad Arthena ci credono e puntano sull’intelligenza artificiale

 

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Di cosa parliamo quando parliamo di big data? Ci riferiamo a quell’enorme quantità di meta-dati prodotti sulla rete internet, che viene analizzata per rintracciare i percorsi digitali degli utenti e studiarne i comportamenti, al fine di influenzarne le scelte o fare previsioni sul breve e medio periodo. Questo modello di business è diventato fondamentale per le aziende che operano nei più disparati settori e ha condotto a una ridefinizione delle gerarchie culturali, determinando il passaggio da uno schema di tipo verticale a uno orizzontale, basato sul numero di legami tra una fonte e le altre, il cosiddetto “ecosistema dei link”. Gli hedge fund e alcune delle più grandi banche del mondo hanno adottato le proprietà predittive del machine learning per individuare i modelli e guidare le loro decisioni di investimento. 
A questo modello di business si ispira la startup newyorkese Arthena fondata nel 2013 da Madelaine D’Angelo, che ha conseguito un master in studi museali ad Harvard e suo fratello Michael, 27 anni, che ha studiato ingegneria computazionale e matematica a Stanford. Arthena analizza centinaia di migliaia di dati riguardanti le opere d’arte: artista, stile, dimensione e altre informazioni. Aggiungendo un tocco di intuizione umana, la società acquisisce i pezzi ritenuti in grado di generare rendimenti interessanti per gli investitori. Attualmente, Arthena gestisce diversi fondi, da quelli a basso rischio che investono nell’arte moderna a fondi ad alto rischio, che comprano opere di artisti emergenti. Tuttavia, per quanto l’obbiettivo dichiarato di Arthena sia quello di democratizzare il mercato dell’arte, per ora solo i ricchi investitori accreditati dalla Securities and Exchange Commission – in genere individui con reddito annuo di $ 200mila o $ 1 milione di attività – possono mettere soldi in un fondo Arthena. La compagnia ha dichiarato di avere 10 milioni di dollari di impegni e spera di generare rendimenti annuali dal 12,5% al 15,5%. L’emergere di Arthena coincide con un’ondata di interesse per gli investimenti artistici. Molti investitori stanno cercando di diversificare i loro portafogli a fronte di bassi rendimenti obbligazionari, spostandosi verso quello che molti considerano un mercato ad altissimo rendimento. Le vendite nelle grandi case d’asta sono aumentate del 18% nella prima metà del 2017, secondo l’ultimo rapporto di Art & Finance di Deloitte. 
Di fatto, però, investire nell’arte è una prospettiva scoraggiante per la maggior parte delle persone, perché non ci sono molti dati disponibili. Cambiare questo meccanismo è quello che si propongono di fare startup come Magnus, che ha l’ambizione di catalogare l’esistenza e il prezzo di ogni opera d’arte e di rendere tali informazioni disponibili al pubblico, o come Artsy, che trasmette aste su smartphone e tablet ed elenca l’inventario da una rete globale di gallerie. Arthena e altre startup potrebbero quindi far luce su un mercato in cui le trattative sono spesso opache, ridurre le barriere all’entrata e rendere più trasparenti gli investimenti artistici. (Carmine Ranaldo)

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