12 maggio 2018

Cannes/5. Amore e odio. Il festival rende il suo tributo al grande assente Jean-Luc Godard

 

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Ancora una assenza illustre al Festival di Cannes ma, questa volta, contrariamente a quanto accaduto per il regista Kirill Serebrennikov, agli arresti domiciliari in Russia, si tratta di una scelta libera, per quanto politica. Si tratta infatti del maestro Jean-Luc Godard che è rimasto fedele alla linea e, come accadde quattro anni fa, ha disertato la presentazione del suo Le livre d’image, in concorso per la Palma d’oro, rimanendo nella sua appartata casa in Svizzera. Un rapporto burrascoso, quello che lega il maestro della Nouvelle Vague e il Festival francese, basta ricordare l’episodio del 19 maggio del 1968, quando Godard, insieme a François Truffaut, Claude Lelouch, Claude Berri, Roman Polanski, Louis Malle e Jean-Pierre Léaud, si unì al movimento studentesco che stava agitando la Croisette e, sulla scia delle proteste, Alain Resnais, Carlos Saura e Miloš Forman decisero di rimuovere i loro film dalla competizione. Ma lo stesso Godard ha partecipato in diverse occasioni al festival, affettuosamente chiamato «un convegno per dentisti», che quest’anno oltre a celebrare il maggio ’68, come molte altre istituzioni francesi, ha anche dedicato la sua immagine principale al bacio tra Jean Paul Belmondo e Anna Karina in Pierrot le fou
E l’omaggio a questa storia burrascosa non poteva che essere sfolgorante, così Le livre d’image è stato lungamente applaudito al Grand Theatre Lumiere. Qualcuno, difettando di buon gusto, ha parlato di testamento spirituale ma sembra azzardato immaginare un Godard deciso a chiudere stancamente il libro, estraniandosi dalla lotta. «Sto con chi mette le bombe», è il messaggio con il quale ha lanciato il film, mettendo in evidenza non solo lo spirito che anima la sua opera ma anche un atteggiamento individuale. Filmati di repertorio, stralci presi da telegiornali, ritagli da pellicole iconiche della cinematografia occidentale – Pasolini, Fellini e, ça va sans dire, Godard – per raccontare, attraverso un found footage altamente estetico, il baratro nel quale è stato fatto sprofondare il paradiso del Medio Oriente, qui sintetizzato in uno Stato ideale, raccontato attraverso immagini costruite da altri. Come a dire, «assumiamoci le nostre resposanabilità». Come spesso capita per i film del maestro, la storia e la tecnica, il linguaggio e gli strumenti, i personaggi e gli operatori, si muovono tutti sullo stesso piano di gioco e, alla fine, il messaggio politico e quello artistico, il portato sociale e quello intellettuale, diventano un’unica matassa appassionante da districare. Qualcuno non l’ha pensata così e, durante la proiezione, ha preferito lasciare la sala ma gli applausi sono stati ugualmente altisonanti.

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