06 settembre 2018

Festival di Venezia/7. Netflix ed esistenzialismo, alla Masterclass del Leone d’oro David Cronenberg

 

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Iniziamo da due anni fa. A Cannes, due anni fa, una polemica aveva animato il festival. Due film asiatici, distribuiti da Netflix, erano stati giudicati contro le regole del festival dopo la proiezione, non avendo una distribuzione nelle sale ma solo on-line. Da qui è nata una prevedibile discussione, se un prodotto audiovisivo che non sia stampato mai su pellicola e non sia mai distribuito nelle sale, possa essere ancora cinema. 
L’anno seguente, ovvero, durante l’edizione di Cannes appena finita, Netflix decide di ritirare tutti i suoi film da Cannes e iscrive i migliori in concorso a Venezia, Norway, di Paul Greengrass, Roma, di Alfonso Cuaròn, dato per il vincitore dai critici, e una versione restaurata e completata di The Other Side of the Wind, di Orson Welles. Questo evento ha improvvisamente capovolto le relazioni di forza fra il festival francese e quello veneziano, costringendo i dirigenti del festival di Cannes a ritrattare con Netflix. La storia insegna che opporsi ai cambiamenti tecnologici al cinema non è mai servito e che il cinema non è mai morto, in ogni caso. 
Da qui è partito David Cronenberg durante la sua masterclass, che vi raccontiamo in breve. 
Cronenberg ha il suo postulato: Internet è Netflix, e Netflix è Internet. Il nostro sistema neuronale è più simile a quello digitale, l’analogico è sempre stato un limite fortissimo, uno sforzo, un gran freno alla creatività, ai ritmi di vita e un grande ostacolo alla produzione. Nella fruizione, un film per Netflix non assomiglia nemmeno vagamente a un film per il cinema. Perché? Un cattolico, dice, dovrebbe capirlo subito. Il cinema ha una liturgia, è un rituale. Si entra in fila in una sala buia. Si sta in silenzio, si rimane seduti, si segue una trama, un racconto. Con Netflix, la fruizione è invece la stessa di un libro. Si sta da soli, in un luogo familiare e i tempi della fruizione sono quelli biologici di ciascuno. Io odio la pellicola, dice. «Odio i tempi del montaggio, in cui ogni sequenza deve essere prima montata, poi proiettata, poi eventualmente cambiata e poi di nuovo, ancora». Nel frattempo, il montatore deve lavorare da solo, il regista deve leggere un giornale e aspettare. Con il digitale si possono avere dieci diverse versioni montate contemporaneamente, il regista e il montatore possono farsi una passeggiata e fare una pausa insieme se sono stanchi, non è vero che i ritmi sono aumentati, si può semplicemente decidere quando fermarsi. 
Esiste, fra la pellicola e il digitale, la stessa differenza che passa fra la macchina da scrivere e il computer. «Sono cresciuto con la colonna sonora di mio padre che scriveva su una delle prime macchine da scrivere elettroniche, per me era già un feticcio il corpo fisico della tastiera, con un valore solo di tradizione e nessuno funzionale. Avrei sempre voluto fare lo scrittore, il cinema non era il mio sogno. Ho capito che il cinema era più potente della letteratura un pomeriggio, quando ho visto a Toronto, di fronte casa mia dove c’era il quartiere degli Italo-canadesi, il pubblico in lacrime uscire dal cinema. Erano usciti dalla proiezione di un film di Fellini, La Strada. Così ho capito la potenza del cinema come Arte». 
Ha risposto con grande generosità anche alle domande che in genere è meglio non fare, tipo: qual è il suo filosofo preferito? Con grande umiltà ha detto, gli esistenzialisti. Con un grande disagio. «Heidegger mi fa venire i brividi per la sua grandezza e perché sono ebreo». E sui droni, «sono una tecnologia potente e liberatoria, come ogni forma di tecnologia umana possono essere utilizzati per il bene e per le azioni più atroci, e così succederà». «C’è qualcuno in sala che può presentarmi a un manager di Netflix? Non ho molto lavoro in questo momento e non vedo l’ora di iniziare a lavorare per loro».
Direi di seguire il suggerimento di Cronemberg, che ha anche visitato il carcere femminile della Giudecca per un progetto a cura di Michalis Traitsis, Passi sospesi, che prevede la visita in carcere di artisti che lavorino e presentino la propria opera alle detenute e attivino con loro un processo creativo. Al termine della cerimonia, il film proiettato sarà il più amato e il meno famoso, Mister Butterfly. Un film sull’ambiguità, sulla difficoltà di dire io, sulle difficoltà del corpo. (Irene Guida)

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