06 settembre 2018

Festival di Venezia/8. Revolution e urla in sala, con Mario Martone e Jennifer Kent

 

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Il refettorio della Certosa di Capri ospita una collezione donata dagli eredi di un pittore celebre presso la corte Asburgica di Francesco Giuseppe. Si tratta del lascito Diefenbach. Sono quadri che ritraggono paesaggi crepuscolari e decadenti, dipinti per la maggior parte durante la permanenza di Karl Friederich Diefenbach nella comune di Ascona, fondata mentre alla corte di Vienna i fratelli Strauss componevano Valzer, le industrie metallurgiche preparavano le armi e le città iniziavano a trasformarsi in metropoli industriali, almeno nel Nord Europa. 
Sul monte Menascio, oltre la costa nord del lago Maggiore, si erano ritirati a vivere, vestiti solo con un camicione, quando erano vestiti, accampati in capanne con docce all’aperto, un gruppo di giovani, intellettuali, artisti, che avevano come scopo trovare una forma di vita che fosse più adeguata ai ritmi della natura, non prevedesse l’uccisione di alcun essere vivente, aiutasse lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno. La teosofia e la danza contemporanea nascono qui, insieme a una parola del dialetto milanese che serviva a indicare questi strani personaggi, Balabiot. 
Mario Martone è partito da questi quadri a Capri, imparando che proprio qui Diefenbach si era ritirato con una parte di questa comunità hippie ante litteram, finendo la sua vita con loro, trasportando l’esperienza di Ascona. La danza, la musica che parte da La Monte Young, passa per John Cage e i minimalisti, infine va a ritroso verso quella indiana, con la colonna sonora di Sascha Ring e Philip Timm. In questa cornice, Martone ha ambientato Capri Revolution, da alcuni indicato come il terzo capitolo di una sua trilogia della vita, iniziata con Noi Credevamo, proseguita con Il Giovane Favoloso e chiusa qui. Martone ha dichiarato di volere fare dei film in cui si mostra una coscienza propria dell’Italia non rassegnata, vitale, che fa e si muove per quello in cui crede, anche in condizioni avverse. Cita il detto di Pasolini, una relazione vitale salva. Invoca il dialogo, l’incontro con l’altro, la relazione.Ssottolinea che la protagonista è una giovane pastora di capre analfabeta che, grazie alla presenza di questi ragazzi, scopre la vita, decide di emanciparsi, impara ad avere una voce. Infine, il nume tutelare, Joseph Beuys, e le sue installazioni capresi. 
Imprevisto in sala, invece, per The Nightingale. Bizzarro western ambientato in Australia, dove una giovane donna irlandese, in seguito a violenze subite, finisce per celebrare la sua vendetta insieme con un indigeno. Una celebrazione della violenza dal punto di vista femminile, scrive la regista Jennifer Kent nel suo statement. Le reazioni sopra le righe del pubblico, seguite da pubbliche scuse su Facebook del responsabile delle urla in sala durante l’anteprima, sono valse una passerella speciale con il picchetto d’onore sul Red Carpet, con il presidente della Biennale, Paolo Baratta, e il direttore artistico, Alberto Barbera, a questo piccolo film dell’unica regista donna, nonostante le donne e il punto di vista femminile siano il vero leit motiv della Mostra, a partire dal manifesto. (Irene Guida)

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