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Giustizia sociale, discorsi di genere, postcolonialismo e il loro impatto sulle donne dell’Africa nera. Questi alcuni dei temi principali trattati nell’opera di Wangechi Mutu, presentata mercoledì, 5 dicembre, al MAXXI – Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, dall’artista stessa, con i saluti del Direttore Artistico del museo Hou Hanru. L’incontro, organizzato in collaborazione con l’American Academy in Rome – dove l’artista keniota è attualmente Roy Lichtenstein Artist in Residence e sarà ospite, nel 2019, alla mostra “The Academic Body” a cura di Mark Robbins -, ha visto anche la presenza del Direttore John Ochsendorf e dell’Arts Director Peter Benson Miller, inserendosi nell’ambito degli eventi promossi dall’Accademia nel corso di quest’anno per approfondire le tematiche artistiche e sociali intorno al corpo.
Mutu si è raccontata in un’intima conversazione serale con il pubblico, compiendo un excursus sulla propria ricerca artistica così strettamente connessa alle origini africane e a un percorso di vita che, recentemente, l’ha riportata a Nairobi per aprire un nuovo studio e inseguire nuove progettualità. Lontano dalla frenesia newyorkese, dove le possibilità nel mondo dell’arte vengono servite su un piatto d’argento, ma dove il contatto diretto con quelle origini e quei ritmi antichi viene inevitabilmente meno. E così sono emerse, una alla volta, le tappe di un percorso dove tutto è apparso strettamente connesso, dall’educazione cattolica in Kenya alla realizzazione delle prime opere legate all’iconografia mariana e femminile, che presto si sono tramutate in lavori il cui obiettivo primario è dar voce alle donne nere e ai tabù intorno ai loro corpi, ai loro sacrifici sociali, alle loro lotte politiche negli anni delle repressioni civili.
Una ricerca complessa che si serve di molteplici linguaggi artistici – dalla pittura, alla scultura, al video e alla performance -, le cui protagoniste sono donne di acquerello, di terra e di pixel nelle sembianze di potenti divinità panteistiche, ibride e terrificanti, o di fragili madri letteralmente “schiacciate” dal peso della cultura occidentale cui sono costrette ad adeguarsi (immancabile, a tal proposito, la proiezione del video The End of Carrying All, esposto per la prima volta alla 56. Biennale di Venezia). Mutu ha permesso al pubblico di comprendere come ognuno di questi elementi vada a comporre, nel suo lavoro, il quadro di una poetica che si concentra sulla condizione della donna africana, la cui ricca femminilità viene ancora repressa e distorta e che in questo modo arriva, troppo spesso, anche a noi.
Un focus particolare è stato riservato dall’artista a uno dei suoi lavori più noti, Banana Stroke, performance realizzata nel 2017 al Metropolitan Museum di New York, dove la Mutu “santifica” uno spazio immacolato lasciando la traccia di un dipinto astratto con un paio di grandi foglie di banano, incarnandosi lei stessa in una delle sue donne-simbolo alate. Senza dimenticare di ricordare infine, insieme alla curatrice Anne Palopoli, il video The End of Eating Everything attualmente esposto all’interno della mostra “Road to Justice” al MAXXI. (Alice Bortolazzo)
In home: She’s got the whole world in her, 2015. Courtesy of Wangechi Mutu. © The Artists
In alto: The End of Eating Everything, 2013. Courtesy of Wangechi Mutu. © The Artists