09 maggio 2019

58 Biennale/10. Schizofrenie e banalità. Impressioni molto a caldo su ciò che stiamo vedendo

 

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A Venezia si confermano solo quelli che conoscevamo già. In questa Biennale dell’ovvio, a vincere potrebbe essere il Ghana, con un Padiglione sulla carta bellissimo, con una video installazione straordinaria di John Akomfrah e una Lynette Yiadom-Boakye che si conferma la migliore pittrice del momento, anche se con quadri di piccolo formato che non sono i suoi migliori. 
Per il resto, Ralph Rugoff ha inventato una formula noiosa di schizofrenia del percorso. L’Arsenale meglio dei Giardini ma a che serve lo iato di opere dello stesso artista? Una versione per il mercato e una per il pubblico? Il formato Fiera-Biennale non funziona più, così si soffocano perle di lavori, come il film di Arthur Jafa o la delicata Frida Orupabo. Dopo l’overdose di Tomas Saraceno e Laure Prouvost, ecco il Padiglione Stati Uniti, che sacrifica alla politica Martin Puryear, tra i maggiori artisti del nostro tempo. In fondo, la sua nostalgia americana è la prova che Jimmie Durham è un grande. Vae victis. 
Milovan Farronato, di cui non si discute la splendida intuizione, ha fatto un padiglione Celantiano, in una Biennale in cui Germano Celant recupera un Jannis Kounellis maggiore post mortem. Noia, noia e soprammobili per ricchi collezionisti. 
Se avete scoperto un artista non ditelo, gli si potrebbe ritorcere contro, potrebbero chiedergli di decorare gli spazi della prossima Biennale, nel delirio curatoriale di un nuovo direttore. E si conferma, purtroppo, il vecchio refrain che un artista è meglio da morto, per il pubblico e per il mercato. Per questo gli artisti sono immortali, o meglio vivono sempre due volte in un’arte che non vive di luce propria. (Ivo Bonacorsi)

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