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La notte bianca dei musei: viaggio nella manifestazione che chiude l’estate berlinese
Progetti e iniziative
Si apre e si chiude all’insegna dell’amore la 43esima edizione della Lange nacht der Museen di Berlino, il format che ha permesso di visitare, al costo di un unico biglietto, gli oltre 75 musei, siti culturali e fondazioni dalle 18 alle 2. Realisticamente, non potendo assistere a più di cinque eventi, mi preparo un percorso da effettuare rigorosamente in bici e, armato del kit di sopravvivenza berlinese (borraccia e k-way), mi lancio sospinto dalle ali dell’entusiasmo e confortato dalle temperature miti. Neanche sono partito che subito mi imbatto nella Trans Pride Parade tra Alexanderplatz e Potsdamer Platz, che mi costringe subito a deviare il percorso e inebriarmi con il sentore acre della ganja e un corteo che avanza al ritmo di musica. È l’amore che avanza, al tempo della techno.

L’unica risposta che ricevo quando chiedo informazioni è un rassegnato “Sorry, I’m from Melbourne, Australia”, che mi dice già qualcosa sul tipo di pubblico che affollerà le strade, questa notte. Grazie al mio scarso senso di orientamento, imbecco anche una manifestazione pro-palestina che si svolge a cento metri dall’angolo opposto della strada dove si agita un nugolo di bandiere israeliane.

Mi chiedo se questi cortei in cui mi imbatto, portavoce di conflitti all’interno della città, troveranno una loro trasposizione artistica nelle mostre che mi accingo a vedere. E, mentre ci penso su, sono già nella Neue Nationalgalerie, accolto da un beffardo “War is Over. If you want it”. La prima tappa è infatti Dream Together, una delle due mostre in città (l’altra è al Gropius Bau e ne scrivevamo qui) dedicata a Yoko Ono, a cura di Klaus Biesenbach, direttore della Neue Nationalgalerie, Connor Monahan e Jon Hendricks.

Sognare in due, svegliarsi in uno
La piccola stanza a lei assegnata mi accoglie con un bianco asettico che è luce inestinguibile ma anche bagliore della bomba atomica su Hiroshima, un tema che riaffiora costantemente nell’infanzia e nell’opera dell’artista.

I cocci di ceramica e le pietre sistemate su lunghe tavole che invitano le persone a ricomporle e maneggiarle, sembrano derivare da quella deflagrazione e lasciano a noi il compito di rimetterle assieme – insieme.
Uscito dalla sala, mi dirigo verso il giardino esterno nel quale, al bordo di due vasche, prende vita la scultura di nebbia dell’artista Fujiko Nakaya (visitabile fino al 14 settembre). In pochi minuti vengo avvolto da un denso vapore acqueo che mi fa perdere i confini spazio-temporali e getta in uno stato di spersonalizzazione dell’Io. Sensazioni consuete, immagino, per chi abbia percorso almeno una volta il tratto della SS11 lungo la bassa, tra Crema e Milano.

Ritiratasi la nebbia, con l’umido ancora appiccicato sulla giacca, mi rimetto in sella verso l’Humboldt Forum – la mia sete di arte nipponica non è del tutto estinta, e sono soltanto le 21.
Smarrirsi e tornare
Sebbene le sezioni dell’Humboldt, divise per continenti, siano visitabili gratuitamente, nel programma della Lunga Notte mi viene proposto One on Two, two from one, di Takehito Koganezawa (fino al 12 ottobre) che combina elementi eterogenei, in particolare scultura e video, testimonianze del processo creativo dell’artista, più che i suoi frutti. Lampi creativi e giochi surrealisti con creta, pastelli, che mi lasciano piacevolmente disorientato, grazie anche al suono dal vivo di un sitar proveniente dall’attigua sezione di Indian Art, il quale mi ricorda che ho un concerto che mi aspetta al Centro Documentazione di Fuga, Espulsione, Riconciliazione.

Qui, mi imbatto per caso nella performance Suitcases, a opera del collettivo russo Upsala Circus. I tre acrobati si destreggiano con pesanti valigie di legno, trasmettendo con il gioco la sensazione di rischio imminente ed equilibrio precario di chi, esiliato dalla propria terra, non può permettersi distrazioni né disattenzioni – e il lungo applauso al termine dello spettacolo, meritatissimo, suona come un incoraggiamento ad andare avanti tanto nella ricerca artistica quanto nella vita.
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Metabolizzata l’adrenalina, vado a stendermi su uno dei cuscini giganti posti all’interno della sala concerti aspettando il live Echoes of Iran: iniziato bene, si trascina un po’ monotono per 60 minuti nei quali, almeno, ho l’opportunità di riposarmi prima dell’ultima tappa al Deutsches Technikmuseum.
Stasera si vola
Sarà la collezione di velivoli della Luftwaffe, i modelli in scala 1:1 dei cacciatorpedinieri sospesi sulla mia testa, ma subito avverto il cambio di clima: da quello incerto e di frontiera del Centro Documentazione a uno più netto, freddo. A questo punto, le mie speranze sono tutte riposte nella performance Resonanzräume der Liebe, ovvero “spazi di risonanza dell’amore” che spero mi infonda un po’ di calore prima di tornare a casa. Invece, la descrizione dell’evento (una straordinaria performance che combina danza e kung fu, fotografia e suono) si dimostra molto al di sopra della realtà; è come se l’aria marziale della struttura si fosse impossessata dei corpi delle due performer i cui gesti mi arrivano esangui, formali.

Decido di affogare i miei dispiaceri nell’aperitivo sul tetto sotto il Candy Bomber, il C-54 usato da Gail Halvorsen, il primo pilota a far piovere su Berlino Ovest piccoli paracaduti riempiti di cioccolata, gomme da masticare e caramelle durante l’embargo ordinato dall’Unione Sovietica.
A letto senza cena
Per come è pensata, l’offerta vastissima della manifestazione risulta dispersiva: mi dico che, forse, sarebbe stato meglio concentrare le forze su due sole strutture. Eppure, il claim della campagna è la quantità, non la qualità. Ed è, a mio avviso, il limite più grande. Il format sembra inserito in quei tentativi di presentare la città come una metropoli culturalmente appetibile e inclusiva.
Se questo è vero, c’è il rischio (o l’intento?) di attirare grandi masse di turisti e capitali con la formula dell’All you can eat, che per forza di cose appiattisce l’offerta e impedisce al visitatore di approfondire temi più complessi, quelli su cui l’arte ha il potere di indagare.
Invece, l’amore decantato dal titolo è uno dei tanti antidoti per scongiurare il modo in cui viviamo, ma non certo per interrogarci sul mondo in cui viviamo. Quel mondo, infatti, è tenuto fuori dai musei: fa paura e una sensibilizzazione eccessiva sui temi della guerra, degli stranieri, dell’identità, può compromettere il nostro amore verso la società, suscitando dubbi – togliendoci l’appetito.
Ci pensa la notte a rassicurarmi con la coperta del domani. Torno a casa facendo il percorso inverso, nel silenzio delle strade che rivelano le spoglie di una vita irriducibile: birre vuote, cartelli sul genocidio, bandiere strappate, coriandoli sparsi, pipe di alluminio. Verrà qualcuno a pulire, come sempre.
Come direbbe Edoardo: «Ha da passa’ a nuttata». Dei musei, naturalmente.














