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“Fare acqua da tutte le parti”: la nuova mostra di Galleria Michela Rizzo
Mostre
di Viola Amico
In Fare acqua da tutte le parti —la nuova mostra di Galleria Michela Rizzo, a Venezia— i giovani artisti esposti approcciano l’acqua come specchio intimo, foriero di viaggi introspettivi, così come di urgenti speculazioni future.
In Mimoidi (2024 – in corso), una serie video di Francesco Coccolo (Udine, 2001), la fluidità del medium digitale si fonde con quella del soggetto rappresentato: le ambigue coreografie che danzano sulla superficie liquida di Venezia. Ne scaturisce un incontro fertile, generativo di visioni sinestetiche che, protraendosi nel tempo, inducono uno stato quasi ipnotico, una trance che tende alla paraiedolia: al riconoscimento di forme familiari. Queste, come appigli interpretativi, offrono una tregua dall’incessante moto ondoso della città anfibia e, con esso, a quello irrequieto dei nostri animi. Eppure, tali soglie mai definitive, non sono semplici rifugi: solleticano piuttosto immaginari che, scivolando fuori da un’unica supposta realtà oggettiva – il one-world world (OWW) come lo definirebbe John Law (2015) – dischiudono un necessario pluriverso, un mondo in cui molti mondi sono possibili.
Il titolo, Mimodi, è infatti riferimento alle configurazioni pseudo-architettoniche dell’oceano “intelligente” di Solaris – capolavoro letterario di Stanisław Lem e poi cinematografico di Andrej Tarkovskij – che, estrapolando memorie e ricordi dalle forme di vita con cui entra in contatto, restituisce visioni diverse, ora epifaniche, ora perturbanti.

Il duo Enzo e Barbara – formato da Greta Fabrizio (Padova, 2000) e Riccardo Lodi (Padova, 1998) – indaga, d’altro canto, l‘acqua specialmente come bene comune, ovvero come risorsa inseparabile dalla collettività che, con essa, dovrebbe co-evolvere e rinnovarsi.
A partire da una ricerca sull’inquinamento del territorio veneto e, specificatamente, sui PFAS – composti chimici sintetici non biodegradabili, per questo definiti “inquinanti eterni” – il duo testa prototipi speculativi che, ispirati a nuove tecnologie ancestrali, come: funghi, alghe e batteri, permettono di scrutare differenti forme di parentela (Donna Haraway, 2022).
Il loro ciclo di Depuratori, realizzato in collaborazione con Marco Selmin, si presenta infatti come configurazione di quell’infrastruttura amniotica (Julia Watson, 2025) che, lontana da architetture dure ed estrattiviste – troppo spesso co-responsabili dell’accelerazione del collasso ecologico – approccia il design di sistemi idrici come relazione viva, simbiotica e permeabile fra tutti gli agenti che ne dipendono.

L’impostazione processuale di entrambe le ricerche si manifesta poi anche nei disegni preparatori: composizioni sonore e libri d’artista che dialogano con i due dispositivi principali. Questi elementi non sono semplici documenti, bensì tracce mutevoli di una cartografia di giardini dai sentieri che si biforcano. Circuiti aperti che, consapevoli delle inevitabili sfide, nonché possibili soluzioni che il tempo farà emergere, celebrano tale fertile volubilità, innalzando così un inno alla metamorfosi vitale dell’acqua stessa.
Il titolo Fare acqua da tutte le parti è dunque riconoscimento delle nostre falle – individuali e collettive – ma ammicca, al tempo stesso, al capovolgimento di questa narrativa in una poetica dell’infiltrazione. Una prospettiva che onora la porosità, non solo come vulnerabilità ma anche come forza condivisa, e che approccia la perdita come archivio, sia di danni che di possibilità di riscatto.
È finalmente abbandonandoci a tali flussi interconnessi che possiamo esercitare una vera cura relazionale, una comunità idrica che – oltre idee di purezza o utopica riparazione – ci aiuti a sostenere la contraddizione come molecola fondamentale dell’acqua, vettore sia di inquinamento che di vita.















