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Per la Fondazione Morra Greco di Napoli, la collezione è un archivio vivo
Progetti e iniziative
Alla Fondazione Morra Greco di Napoli prende forma Opere su carta, Ephemera e Oltre, progetto espositivo concepito come un viaggio in più atti e curato da diverse voci, in dialogo con la collezione della Fondazione. Il primo atto, a cura di Giulia Pollicita, dal titolo ti attende il filo spinato, la vespa, la vipera, il nichel, è una citazione da Alphabetum, poesia di Edoardo Sanguineti, da cui trae lo spirito sarcastico e sovversivo, a tratti volutamente caotico, per creare connessioni libere tra opere e artisti. Come nel gioco surrealista del cadavre exquis, il percorso si costruisce attraverso frammenti, sovrapposizioni ed evocazioni che, sotto una veste di associazioni casuali, manifestano una sotterranea e sibilare comunicazione fra i partecipanti, portando a letture inattese.

La mostra si sviluppa sui tre piani di Palazzo Caracciolo di Avellino, sede della Fondazione, e si concentra soprattutto sulle opere su carta, includendo anche installazioni, multipli e video. A emergere è un pensiero dell’archivio come pratica affettiva e critica, dove ogni documento, che sia disegno, acquerello, invito, appunto o lettera, racconta una storia che sfugge alla linearità. Su questa linea multidisciplinare, Pollicita ha selezionato una serie di opere, facenti parte della collezione della Fondazione, che incarnano questa vitalità sperimentale. In esposizione, i lavori di Vito Acconci, Roberto Cuoghi, Betty Danon, Douglas Gordon & Jonathan Monk, Ian Kiaer, Július Koller, Peter Land, Daniele Milvio, Jonathan Monk, Henrik Olesen, Seb Patane, Pino Pascali, Kirsten Pieroth, Markus Schinwald, Lorenzo Scotto di Luzio, Paloma Varga Weisz, Danh Võ.

Tra le opere più rappresentative, ci sono i video Theme Song, Home Movie e Indirect Approaches (1973) di Vito Acconci, che testimoniano l’evoluzione del linguaggio performativo e del video come spazio relazionale. Attraverso corpo, voce e parola poetica, Acconci mette in discussione l’intimità e la distanza tra artista e spettatore.
La curatrice, nel testo, ricorda come tra il 1967 e il 1969 Acconci fondò la rivista di poesia 0 to 9, una breve ma significativa esperienza che porta l’artista, a partire dagli anni Settanta, a utilizzare il suo corpo nell’azione performativa integrando, in seguito, anche il video. Ed è proprio nel primo numero della rivista che Acconci inserì la poesia di Sanguineti, inaugurando una stagione artistica, quella degli anni Settanta, molto fortunata.

Durante il percorso si incontra anche l’opera Torta Pop Up di Danh Võ, utilizzata come invito al Padiglione Danimarca della Biennale di Venezia nel 2015: un oggetto tridimensionale dall’apparenza ludica, che custodisce la foto del suo primo passaporto, il ricordo o quel che resta di un’identità migrante. L’artista danese, di origine vietnamita, intreccia in questo modo autobiografia e memoria collettiva in un lavoro che riflette sulla storia personale come strumento politico.

La carta è il delicato supporto su cui Paloma Varga Weisz scolpisce i suoi acquerelli Portrait in Lila (2005) e Head Cooker (2005) in cui convivono fragilità e tensione, in un racconto visivo che si incontra con l’opera Telegraphy di Kirsten Pieroth. L’artista ha centrato la sua ricerca sulla trasformazione di oggetti comuni in dispositivi poetici privi di funzione ma, carichi di significato. Una stazione telegrafica muta, costruita con legno, radio e un tasto Morse, diventa infatti metafora delle disfunzioni comunicative del presente.
Non manca la riflessione sul valore e la circolazione dell’arte: Douglas Gordon e Jonathan Monk, con Leon d’Oro, propongono una performance-cena dedicata ai vincitori del Leone d’Oro della Biennale di Venezia. Un’opera effimera, registrata solo da menù e disegni, che sposta l’attenzione dal trofeo alla condivisione dell’esperienza.

Infine, l’opera dell’artista slovacco Július Koller mostra come, ancora una volta, attraverso il gioco si possano costruire potenziali strumenti di resistenza. Le sue fotografie e opere su carta utilizzano simboli universali – spirali e punti interrogativi – come forme critiche di interrogazione esistenziale e politica. In Untitled (Július with a Painting) del 1979, ad esempio, l’artista mette in scena se stesso come atto ironico di rivolta contro il regime politico della Cecoslovacchia degli anni Settanta. Con Koller, la semplice meccanica quotidiana del gesto diventa ricerca di una libertà lontana dalla retorica.

Il 30 ottobre è stato presentato il secondo atto, El mapa de los autores perdidos (La mappa degli autori perduti), a cura di un gruppo di ragazze e ragazzi del Centro Interculturale Officine Gomitoli della Cooperativa Dedalus. La mostra è il risultato di un laboratorio di curatela partecipata articolato in più incontri, durante i quali i giovani hanno indagato il senso profondo e condiviso del “curare” una mostra.















