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È morta Ornella Vanoni, la cantante che aveva la capacità di attraversare i confini dell’arte
Personaggi
di redazione
Con la scomparsa di Ornella Vanoni si chiude un capitolo della cultura italiana che va ben oltre i confini della musica leggera. Nata nel 1934 nella borghesia milanese, Vanoni ha incarnato una figura di artista totale in un’epoca in cui queste contaminazioni erano ancora rare: attrice formata alla scuola di Strehler al Piccolo Teatro, interprete raffinata, cantautrice ante litteram, presenza scenica magnetica.
La sua parabola artistica parte proprio da quella Milano culturale che negli anni Cinquanta ridefiniva il rapporto tra élite e popolare. Le “Canzoni della Mala” – progetto intellettuale di Dario Fo e Fausto Amodei presentato come recupero antropologico – la consacrano come figura liminale: una voce che portava la strada nei teatri d’avanguardia, che faceva della marginalità urbana materiale estetico. Era, in fondo, arte concettuale applicata alla canzone, anni prima che il termine entrasse nel vocabolario critico italiano.
Ma è la sua capacità di muoversi tra linguaggi e geografie a renderla figura cruciale per comprendere la cultura italiana del secondo Novecento. Dalla bossa nova brasiliana al jazz newyorkese (l’album “Ornella &” con Gil Evans, Herbie Hancock e George Benson rimane un unicum nella discografia italiana), dalla canzone d’autore al teatro musicale di Broadway con Rugantino, Vanoni ha praticato una forma di nomadismo culturale che anticipava la globalizzazione degli immaginari.
Il suo timbro vocale – quella raucedine elegante, quel fraseggio che abitava le parole più che cantarle – era riconoscibile come una firma visiva. Non è un caso che la sua presenza scenica fosse sempre considerata anche in termini plastici: icona di stile, volto fotografato dai grandi ritrattisti, corpo che incarnava un’idea di femminilità intellettuale e sensuale insieme.
Vanoni lascia un’eredità che va interrogata non solo in termini musicali, ma come modello di artista capace di costruire un percorso autonomo, di scegliere le proprie collaborazioni come curatore sceglie opere per una mostra, di fare della propria vita stessa un’opera di narrazione continua. I suoi 55 milioni di dischi venduti sono la misura commerciale di un fenomeno che ha ridefinito cosa significasse essere donna, artista e intellettuale nella cultura italiana del Novecento.












