10 settembre 2015

Venezia/Il cuore di un cane o il cuore di chiunque. Partendo da Lou, con Laurie e Lola

 

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Heart of a Dog è un omaggio al magnifico spirito di Lou Reed, da sua moglie Laurie Anderson; con il cielo che cancella e apre ogni altra proiezione. «Il mio dipinto preferito è un quadro di Goya, quasi non è un dipinto perché è un grande vuoto giallo oro; solo in basso, al fondo del quadro, la testa di un cane appare, in un colore di terra e con una espressione angosciata e di paura». «Esiste un modo americano di morire, che è la prosecuzione esatta del modo americano di vivere. Consiste in una serie di punture narcotizzanti, finché non senti più nulla e alla fine muori senza accorgertene». La voce di un corpo sognante ci accompagna e il film è un rito di trapasso e di lutto. Nella tradizione buddista occorrono quarantanove giorni a uno spirito per dissolversi completamente e rinascere in un’altra forma. Questa credenza vissuta da una finestra sul West Village a Downtown Manhattan in occasione della morte del terrier Lola, diventa una riflessione sui limiti della forma e del linguaggio artistico. “See Something, Say Something” “Vedi qualcosa, Dì qualcosa” è scritto in tutte le stazioni della metropolitana newyorchese dal settembre 2011. Per dirla con Wittgenstein, il paradigma della sorveglianza è la conferma dell’aforisma “I limiti del mio mondo sono i limiti del mio linguaggio”. Sui limiti del linguaggio e della forma affettiva che gli corrisponde aveva riflettuto con le sue opere anche Gordon Matta Clark, che aveva scolpito tagliandola una casa borghese parigina nelle aree del cantiere del Pompidou, creando enormi finestre inesistenti sfondando i solai, aprendo tutte le stanze come se un corpo enorme le avesse attraversate tutte in tutte le direzioni. I paradossi fra reti, strutture reticolari, alberi e stanze, strutture semplici, monadiche, era stato al centro di molti suoi disegni. La difficoltà di essere soggetti è l’essenza del paradigma securitario che ammette il soggetto altrimenti disperso in una nuvola di dati solo se si compie un crimine, occasione in cui retrospettivamente, come in un giallo, tutte questo enorme pulviscolo viene aggregato in una sola scia identificabile in una storia e con un nome; è il paradigma angoscioso del vivere ciechi descritto da Kierkegaard: viviamo andando avanti ma capiamo andando indietro. La cecità angosciosa è quella dei fosfeni che vediamo con gli occhi chiusi, il cinema del prigioniero. Da qui in poi inizia la storia della malattia del cane e dello sforzo fatto per non fargli perdere aderenza con se stesso. Gli esercizi di riabilitazione sono documentati come si commentano gli sforzi e le prove di un artista per diventare tale: i suoi prodotti sono frutto di un essere emotivamente coinvolto e sono artefatti, perché non chiamarle opere d’arte? La plastilina calpestata, le note sul piano, le registrazioni dei guaiti. È un artista, non un cane. O gli artisti sono tutti cani come artisti? Un fantasma ironico accompagna questa riflessione triste ma non malinconica né cinica sul limite fra io e non io. E il film, le proiezioni, la multimedialità diventano lo strumento che permette di uscire dai limiti di un singolo linguaggio, come morendo la soggettività si disperde in un “grande rilascio di affetti”. Il cuore di un cane, il cuore di chiunque. (Irene Guida)

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