05 dicembre 2011

fino al 31.XII.2012 L’elogio del dubbio Venezia, Punta della Dogana

 
Attualizzando la ricerca alla luce dell’instabilità e dell’incertezza dei nostri giorni, una selettiva rilettura della Collezione François Pinault: alla quale si aggiungono opere site-specific per indagare l’insicurezza contemporanea, la crisi di identità e il rapporto tra pubblico e privato...

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La mancanza di sicurezza, la perplessità, l’impossibilità di formulare un giudizio compiuto sono alla base della mostra della curatrice svizzera Caroline Bourgeois presso Punta della Dogana a Venezia. Il dubbio come chiave di lettura della nostra epoca, in cui ancora più che in altri periodi si sono persi di vista punti di riferimento e certezze. In fondo, però, il dubitare come reazione immediata a una situazione complessa o come atto della mente evoluta che ricerca la soluzione migliore ha sempre accompagnato la storia dell’uomo e del suo pensiero; da qui le riflessioni sulla condizione umana e la sua fragilità. Una vastità di temi che i 19 artisti coinvolti focalizzano, soffermandosi su argomenti e aspetti differenti. Caroline Bourgeois conosce la forza insita nel dubbio, la sua capacità di “sfidare i pregiudizi, le convinzioni, le certezze”. “Dubitando si va avanti, si procede nella vita”, dice e il suo intento è accogliere ogni possibile interrogativo, “celebrare il dubbio” in ogni sua forma. Ebbene, talvolta questi sono macigni che pesano sulle nostre coscienze, contenitori di paure, ma anche di speranze in un possibile cambiamento. La mostra è concepita con assoluta attenzione alla specificità degli spazi che compongono Punta della Dogana. Ogni artista ha la sua area dedicata, che comunica con le altre per le trasparenze e la conformità del luogo, stabilendo relazioni anche spaziali tra sensibilità e punti di vista diversi. Oltre alle opere selezionate dalla ricchissima Collezione François Pinault, spiccano due progetti realizzati appositamente per questa esposizione. Julie Mehretu (Addis Abeba, 1970) colloca Untitled nel “Cubo”, il centro dell’edificio seicentesco restaurato dall’architetto giapponese Tadao Ando.

Due grandi quadri, cartine geografiche in cui Venezia e New York sono poste a diretto confronto tra economia, politica e società, che sottintendono un’approfondita ricerca sulla storia di Venezia e dell’arte e della filosofia rinascimentale. TatianaTrouvé (Cosenza, 1968 ) invece, espone alla fine del percorso, nella zona che più ricorda l’originale funzione dei magazzini della Dogana da Mar, dove entravano e uscivano le merci, come ora, invece, scorrono le tracce delle sue opere in assenza, (Appunti per una costruzione), per giocare con il desiderio di possesso del collezionismo e riflettere sui concetti di lavoro e tempo e sulla dicotomia dentro-fuori. La mostra si apre con le sculture minimali di Donald Judd (Excelsior Springs, 1928-1994) all’ingresso. Prosegue poi nella prima sala con i “trofei deviati” di Maurizo Cattelan (Padova, 1960) e David Hammons (Springfield, 1943). Il primo propone il suo famoso cavallo (Untitled, 2007), bloccato in un muro di mattoni mentre salta per scappare, la coda rivolta verso l’osservatore  e la testa conficcata nella parete. Un’immagine della condizione umana senza via di scampo e una polemica contro una certa idea di arte come mero trofeo da esibire. Il secondo lavora sul tema della discriminazione razziale, in Untitled (2000) colloca un canestro da basket sopra una finestra trasformandolo in una sorta di lampadario di cristallo, decontestualizzazione di un tipico elemento dello sport degli afroamericani e ironica allusione alle loro condizioni sociali.
Edward Kienholz (Fairfield, 1927-1994) in Roxys (1962), la sua prima installazione, ricostruisce una casa chiusa, esibendone la violenza, mentre Paul McCarthy (Salt Lake City, 1945) ironizza sul gioco delle parti tra uomo e donna. Marcel Broodthaers (Bruxelles 1924-1976) in Décor ricostruisce scenari di guerra. Thomas Houseago (Leads, 1962) riflette sull’assurdità della condizione umana. Roni Horn (New York, 1955) in Well and Truly (2010) studia la crisi di identità. Bruce Naumann (Fort Wayne, 1941) sviluppa il tema dell’incomunicabilità e il rapporto tra la vita e la morte con i suoi celebri clown (Clown Torture – I’m sorry and no, no, no, 1987), testa e fontana (3 Heads Fountain, 2005). In All (2008) Maurizo Cattelan esprime la perdita dell’identità individuale di fronte alla morte con 9 sagome in marmo giacenti all’obitorio, coperte da un lenzuolo; la resa formale è precisa e realistica, in contrasto con le sembianze indefinite, la mancanza di proporzioni e le posizioni impossibili dei corpi. Chen Zhen (Shanghai 1955-2000) analizza i concetti di tradizione, esilio e sopravvivenza. Thomas Schütte (Oldenburg, 1954) riflette sull’instabilità dei sistemi politici attuali e presenta figure disperate o corrotte, mentre all’esterno dell’edificio torna con la scultura Vater Staat (Lo Stato Padre) del 2010, in cui un padre è imprigionato da un mantello che gli immobilizza le braccia, contrapponendosi a Boy with Frog (2009) di Charles Ray in un dialogo immaginario sull’illusione del potere e della sua trasmissione. Anche Adel Abdessemed (Constantine, Algeria, 1971) indaga il tema politico e le conseguenze delle decisioni dei potenti. 

E ancora le sette tele (Axial Age 2005-2007) imperniate di mitologia, alchimia e storia di Sigmar Polke (Olesnica, Polonia, 1941-2010) dagli studi del filosofo Karl Jaspers sulla ricchezza dell’ “età assiale” nell’antica Grecia e in Oriente; la discussione sull’originalità e sul potere mascolino dell’oggetto come opera d’arte di Sturtevant (Lakewood, 1930), che alla fine della mostra chiude l’esposizione con il video Finite infinite (2010), nel quale un cane corre all’infinito come l’uomo rincorre le sue ossessioni; la descrizione dei valori della classe media americana e l’esaltazione della vita pop di Jeff Koons (New York, 1955) nelle 5 riproduzione di giochi gonfiabili per bambini, costruiti in realtà in acciaio inossidabile, Popeye (2002); gli interrogativi sulla globalizzazione e la multiculturalità di Subodh Gupta (Kaghaul , India, 1964). Nelle due sale del Torrino di Punta della Dogana, Forgotten Dream (2000) di David Hammons, un  vestito da sposa sospeso nell’aria, e Hanging Heart (1994-2006) di Jeff Koons, un immenso cuore rosso appeso con un nastro dorato. Le due opere, fuori percorso, rappresentano un “omaggio al potere simbolico della Serenissima”. L’esposizione, a suo modo una piccola e squisita Biennale privata, non è facile. Sa sollevare interrogativi che restano, nella giusta e consapevole volontà di non fornire risposte preconfezionate, non regalare sospiri di sollievo o momenti di distensione. Un viaggio nella storia dell’arte contemporanea, ma anche nell’intimo di ciascuno.
 
vera agosti
mostra visitata domenica 12 giugno 2011
 
L’elogio del dubbio
Dal 10 aprile 2011 al 31 dicembre 2012
A cura di Caroline Bourgeois
Punta della Dogana
Dorsoduro, 2
30123 Venezia
Vaporetto: Salute (Linea 1)
Tel: +39 041 523 16 80
Infoline : 199 139 139
www.palazzograssi.it
Orari: aperto tutti i giorni, dalle ore 10 alle ore 19,
tranne il martedi. Chiusura delle biglietterie alle ore 18
 
[exibart]

2 Commenti

  1. L’ARTE E’ CELATA DENTRO CIASCUNO DI NOI !!!

    Ma siamo veramente convinti che questo nugoli di artisti addomesticati nello star-sistem, sappiano dimostrare l’insicurezza contemporanea?

    Difficile non rimanere perplessi di fronte a queste dichiarazioni! l’insicurezza, se prima non si trova nell’opera, non potrà mai stare nella testa dell’artista.

    Se queste opere feticcio non rappresentano l’insicurezza, la colpa non è mai dell’artista, ma di chi scrive per legittimare un messaggio che non c’è.

    Perciò se queste opere vogliono indagare l’insicurezza contemporanea hanno fatto cilecca. L’insicurezza contemporanea è qualcosa di indicibile.

    L’esistenza umana, individualmente, si rende complice delle nostre paure, il che ci fa aumentare la nostra audacia, la nostra sfera d’azione e anche l’incertezza che viviamo nel presente.

    L’insicurezza è quella celata dentro ciascuno di noi, ed è qui, che si trova l’arte di vivere, non certo in queste installazioni o in oggetti feticcio. Ecco perchè ai nostri giorni i capolavori sono rari.

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