30 ottobre 2018

La vecchia Puffetta e il nuovo trend

 
La lotta alla parità di genere è stata strumentalizzata dal mercato dell’arte? Vi proponiamo un approfondimento sul tema, con dollari e percentuali alla mano

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Nel 1971 Linda Nochlin, una delle più conosciute teoriche femministe americane del XX secolo, pubblica un saggio dal titolo Why Have There Been No Great Women Artists? nel quale nega l’esistenza di un determinante estetico caratterizzato sessualmente, affermando che la “grandezza” delle artiste donne sia stata storicamente oscurata e ignorata da un sistema sociale e culturale totalmente maschile che le ha emarginate dal sistema e dal mercato dell’arte. 
Pontus Silfverstolpe, esperto di aste e co-fondatore di Barnebys, individua la ragione di questa marginalizzazione nell’ineguale accesso che le donne ebbero alle formazioni artistiche, e all’impossibilità per esse di dedicare la propria vita ad una carriera artistica, sebbene affermi ottimisticamente che «Le cose stanno cambiando». Dati alla mano, invece, anche se le donne oggi rappresentano in media ben il 70 per cento degli studenti delle scuole d’arte, nonché il 51 per cento degli artisti oggi attivi (secondo uno studio condotto dal National Museum of Women in the Arts di Washington DC), esse continuano ad essere rappresentate solo per il 13 per cento dalle gallerie europee e nord americane.
Era il 1986 quando il gruppo di artiste militanti Guerrillas Girls pubblicò il bilancio della presenza delle artiste donne nelle gallerie newyorkesi, contandone in media una per galleria. Pussy Galore’s ripropose il sondaggio nel 2015 e le statistiche sembrarono migliorare, raggiungendo il 50 per cento. Ciononostante, nel mercato secondario, i risultati di un miglioramento sono ancora troppo esigui per essere considerati significativi: nessuna donna raggiunge la fetta più alta del mercato dell’arte, ovvero il 0,03 per cento che conta il 41 per cento di profitto in più rispetto agli altri. I dati sono di Artnet, 2017. Ed é proprio a questo proposito che in un articolo del New York Time del 1991, Katha Pollitt, critica femminista americana, parlò di principio di Puffetta, in riferimento al cartone animato per bambini in cui Puffetta é il solo personaggio femminile all’interno di una società interamente maschile. Potremmo utilizzare lo stesso termine per identificare la situazione della donna all’interno del mercato dell’arte attuale poiché, sebbene le artiste donne comincino a riscontrare qualche risultato milionario, nella top 500 esse rappresentano solo il 14 per cento contro l’86 dei loro colleghi uomini.
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Rosemarie Trockel, Untitled Plastic, 2011 Installation View at The Serpentine Gallery Photograph: Benoit Pailley

Tra i dieci artisti più quotati del mercato nel 1970 non c’è nessuna donna e, sebbene nel 2000 Rosemarie Trockel sia riuscita a raggiungere la quarta posizione (dopo Sigmar Polke, Gehrard Richter e Bruce Nauman, seguita da Pipilotti Rist, Cindy Sherman e all’ottava posizione Louise Bourgoise), secondo le statistiche del Kunst Kompass, nel 2017 il risultato rimane lo stesso.
Un sondaggio condotto da Artnet Analytics nel 2017, in collaborazione con l’Università di Maastricht, identifica Joan Mitchell come l’artista più quotata, con un totale di 390 milioni di dollari di vendite tra il 2000 e il 2017, seguita da Georgia O’Keeffe con 247,2 milioni di dollari, Louise Bourgeoise 213,1 milioni di dollari, e Cindy Shermann 198,7 milioni di dollari. I dati per le corrispettive star maschili sono i seguenti: Pablo Picasso 6, 234 miliardi di dollari, Andy Warhol 4,944 miliardi di dollari seguito da Gerard Richter con 2, 631 miliardi di dollari. 
Il prezzo più elevato pagato per un’artista donna vivente è di 7,3 milioni di dollari, White No. 28 (1960) di Yayoi Kusama, mentre per un uomo vivente è 58,4 milioni di dollari, una scultura di Jeff Koons. L’opera più costosa di un’artista deceduta è di 44,4 milioni di dollari, una tela di Georgia O’Keeffe, contro un trittico di Francis Bacon venduto a 142,4 milioni di dollari (dati Artnews 2015).
Simona Weller nel suo Il complesso di Michelangelo. Ricerca sul contributo dato dalla donna all’arte italiana nel novecento del 1976, e Cloti Ricciardi in Ma il genio chi è?, articolo apparso nella rivista femminista Effe nel 1974, individuano nel «genio creatore» lo stereotipo tipicamente maschile che ha determinato una storia dell’arte di soli uomini. 
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Louise Bourgeois, Spider III, steel, 19 x 35 x 37½ in, 1995
Lo stesso concetto è stato ripreso nel 2017 dalla storica e critica d’arte femminista americana Amelia Jones, in riferimento allo 0,2 per cento delle celebrità donne responsabili del 91 per cento delle vendite tra il 2000 e il 2017 (sondaggio condotto da Artnet Analytics nel 2017, in collaborazione con l’Università di Maastricht). Nel suo On Sexism in the Art World, pubblicato su Artnews nel 2015, Jones afferma che «Spesso l’arte più quotata è quella più facilmente commerciabile e prodotta da quelle figure che meglio si adattano alle idee normative di come “un grande artista” deve essere e agire (…) qualche tropo queer o femminista qui e là sono accettati dal mondo dell’arte finché il lavoro resti quello di un artista che appare come bianco e uomo (o, meglio, “mascolino’’ e ‘’fallico’’). Chimasi sindrome di Margaret Thatcher».
É provato che esista un legame di interdipendenza tra l’azione condotta dalle istituzioni e il mercato dell’arte. In questo senso, un’azione fondamentale è stata portata avanti negli ultimi decenni dai conservatori dei più importanti musei del mondo al fine di riscrivere la storia dell’arte e valorizzare l’opera delle artiste donne con mostre e collezioni ad esse interamente dedicate. La mostra-collezione elles@centrepompidou al Museo Nazionale du Arte Moderna di Parigi nel 2009, Champagne Life alla Saachi Gallery di Londra nel 2016, Making Space: Women Artists and Postwar Abstraction al MOMA nel 2017, e l’itinerante The Political Body: Radical Women in Latin American Art 1960-1985 sono solo alcuni degli esempi più recenti. 
Ma qual è il reale impatto che questi eventi hanno avuto nel mercato dell’arte? E quale nella lotta sociale per l’uguaglianza di genere?
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Cindy Sherman, Untitled, 1975. Serie di 25 fotografie in bianco e nero, colorate a mano. Courtesy Collezione Verbund Vienna
Sicuramente queste esposizioni hanno contribuito a creare una nuova attenzione per le artiste donne da parte dei collezionisti, come attestano le analisi che Barnebys ha condotto per il suo Online Auction Report del 2018, in cui le sessioni di 16,4 milioni di utenti hanno mostrato un crescente interesse per i lavori delle artiste. 
Tuttavia, sembra trattarsi di un arma a doppio taglio: Caroline Lang, presidente di Sothedby’s Svizzera, in un intervista pubblicata su “Marché de l’art” nel 2016: «Con la scusa di voler ristabilire la parità uomo-donna, si sta sviluppando un nuovo trend donna-artista, perfetto impulso di crescita per un mercato dell’arte alla perpetua ricerca di nuovi settori da promuovere e sfruttare». 
Is gender in the eye of the beholder? Identifying Cultural Attitudes with Art Auction Price è il titolo di un esperimento condotto da un gruppo di ricercatori universitari internazionali pubblicato nel 2013. Lo studio si basa sul presupposto dell’esistenza di un’arte di genere quale fattore determinante della svalutazione delle opere delle artiste donne nel secondo mercato. Le statistiche dimostrarono che nelle aste aventi luogo nei paesi in cui la discriminazione è più accentuata la differenza aumenta in maniera direttamente proporzionale palesando che la questione socio-politica sembra quindi essere il vero elemento risolutivo, e non un carattere estetico di genere. In altre parole, senza un profondo cambiamento politico e sociale, in cui le istituzioni culturali giochino un ruolo di primaria importanza, la lotta alla parità di genere rischia di diventare un nuovo trend strumentalizzato dal mercato capitalista. 
Anna Battiston

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