17 luglio 2017

Una notte al museo…dell’Ermitage

 
Parla Piero Pizzi Cannella. In occasione della sua prima personale russa, ecco un'intervista a tutto tondo con l’artista romano

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I più snob del mondo dell’arte contemporanea arricceranno il naso per il titolo di questo articolo, ispirato a un noto film “blockbuster”, nel quale la collezione di un museo ogni notte prendeva vita, animandosi e scorrazzando libera per stanze e corridoi. Ma è quanto sta accadendo negli ultimi due mesi all’Ermitage di San Pietroburgo, nelle sale del secondo piano, le numero 314, 316 fino alla 319, dell’imponente Palazzo d’Inverno. Proprio qui, negli ex locali di servizio dove a suo tempo alloggiavano le damigelle, rifiniti in modo austero e con l’unico decoro rappresentato dalle estrose forme barocche delle finestre. Di giorno, ma soprattutto di notte, una collezione di multiformi lampadari illuminano gli ambienti, evocando gli antichi fasti di questa residenza invernale con tutti i suoi zar e zarine, da Pietro il Grande in poi, cortigiani e 1.500 servitori. Storie di potere e di letto, di compromessi e tradimenti, che ci conducono fino alla rivoluzione d’ottobre del 1917. Ma di lampadari veri e propri, eleganti e sontuosi, i visitatori non ne rinverranno nemmeno uno ai soffitti di queste stanze. Quelli di cui parliamo sono letteralmente appesi alle pareti, plasmati non nel bronzo, ma nella pittura, a colpi di pennello intriso di una densa e preziosa materia, con un vigore di impasto che ricorda le più crude immagini della pittura spagnola seicentesca. Sono le tele che compongono l’omaggio di Piero Pizzi Cannella all’Ermitage, esposte nella sua mostra personale al museo russo fino al prossimo 15 ottobre. In contemporanea con l’esposizione di Anselm Kiefer e di Nefertari e la Valle delle Regine. Un progetto ambizioso e irripetibile. Che ho voluto approfondire con il suo protagonista. Giungo per l’intervista nel tardo pomeriggio di un giorno assolato che promette a breve un acquazzone. Di quelli più tropicali che nostrani però. Pizzi Cannella, per gli amici solo Pizzi, è alla scrivania del suo studio. Un open space di archeologia industriale, ospitato nell’ex Pastificio Cerere. A San Lorenzo. Quartiere popolare e universitario. Oggi al centro della movida capitolina. Un lampo si riflette sulle ampie finestrature. Segue un tuono. E Pizzi esordisce: «Questo è Dio che ci sta ascoltando”. Con questo viatico inizio l’intervista. 
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Piero Pizzi Cannella, Salon de Musique, 2016, tecnica mista su tela. Foto di Simon d’Exea
Cosa rappresenta per te questa tua personale in uno dei più importanti musei al mondo?  
«Ti risponderò con un aneddoto. Quando ero giovanissimo, intorno ai 14 anni, decisi che avrei fatto il pittore nella vita. E a chi mi chiedeva il motivo di questa scelta, rispondevo: “Perché un giorno vorrei fare una mostra all’Ermitage”. Per me ha rappresentato da sempre un traguardo, un punto di arrivo più di altri musei, che mi ha accompagnato fino a oggi, quando finalmente l’ho conseguito. Questa mia passione forse è dipesa da certe mie letture giovanili, come quelle dei romanzi di Dostoevskij e Tolstoj, dei capolavori con atmosfere uniche».
Il titolo della mostra è “Salon de Musique e altri dipinti”: come è nato e in cosa consiste questo progetto?
«La personale è divisa in due parti: la prima è costituita da sette opere di grandi dimensioni, di circa tre metri per tre, realizzate tra il 2016 e il 2017, che rappresentano un mio omaggio personale alla città di San Pietroburgo, all’Ermitage e al Palazzo d’Inverno. I lavori appartengono alla serie Salon de musique, un ciclo iniziato circa 15 anni fa, interni con sale vuote a eccezione della presenza di lampadari immaginari. L’ispirazione è alle grandi corti europee del Settecento, come quelle orientali, dai sontuosi palazzi indiani abitati dai maharaja. Si pensi al film dallo stesso titolo, Salon de musique, del 1958, del regista indiano Satyajit Ray. Su queste mie tele va in scena la solitudine della festa, la malinconia del successo, la solitudine in mezzo alla folla. Per fare un omaggio all’Ermitage, per la realizzazione dei lampadari, pur trasfigurandoli, ho guardato a quelli realmente esistenti al suo interno. Questo è un unicum nel mio lavoro che si basa, invece, su quello che resta della memoria. Quando dipingo non guardo mai immagini, mi nutro solo di quello che ho dentro. Noi siamo le letture che abbiamo fatto, le donne che abbiamo amato, le poesie che ci hanno scosso, la musica che abbiamo ascoltato. Diffido degli artisti troppo specialisti. Preferisco chi ha più questa mia impostazione “cosmica”. La seconda parte dell’esposizione, invece, è composta da opere realizzate dagli anni Ottanta. Si tratta di un’antologica dei miei viaggi immaginari compiuti in quasi quarant’anni, mappe del mondo, cattedrali e vedute. Io sono, infatti, un viaggiatore “da camera”.
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Piero Pizzi Cannella, Salon de Musique, 2016, tecnica mista su tela. Foto di Simon d’Exea
Che aspettative hai da questa mostra?
«Nessuna. Perché, se si avverassero, lo troverei banale; se non si avverassero sarebbe una delusione. Non mi aspetto nulla».
La pittura oggi è uno dei linguaggi artistici più bistrattati da certa critica contemporanea, da direttori di istituzioni museali pubbliche e private, perché considerata passatista, obsoleta. Per quale motivo secondo te?
«Io non avverto questo. Non credo alla ghettizzazione della pittura perché nella mia lunga vita, viaggiando solo per lavoro, seguendo i miei quadri, non l’ho riscontrata in nessun paese. È solo sulla carta, è cronaca di una vita parallela distaccata dalla realtà. Collezionisti, musei, fondazioni sono appassionati di pittura, la comprano, la espongono. Il fatto è che, in questo momento, chi non ama la pittura, ed è una minoranza, ha più visibilità mediatica di chi, invece, la ama (ed è in maggioranza). Detto questo, io non avrei una possibilità di scelta diversa, perché penso come un pittore – come diceva Paul Valéry “Il pittore pensa con le mani” – , faccio il pittore, ed è l’unica cosa che so e posso fare».
Quali sono le mostre che hanno marchiato il tuo percorso?
È difficile rispondere. Molte e nessuna in particolare. Ma c’è un episodio che mi è caro. Avevo 15 o 16 anni e, un giorno, decisi in un’ora di prendere un treno con un’amica per andare a Londra, alla National Gallery, a vedere il Battesimo di Cristo di Piero della Francesca. Presi un treno economico che impiegò 18 ore! Fu un gesto d’amore e definitivo, che ancora ricordo con tenerezza».
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Piero Pizzi Cannella, Salon de Musique, 2016, tecnica mista su tela. Foto di Simon d’Exea
Che cosa pensi del rapporto tra l’arte contemporanea e la politica?
«È un rapporto conflittuale. Da sempre. Ma oggi parlare di politica è come parlare del tempo perché, dopo la definitiva scomparsa delle ideologie, è soltanto una specie di esercizio, molte volte truffaldino e digitalizzato, di gestione della cosa pubblica. Non è più un impegno e un lavoro per trasformare il mondo e la realtà. Non è più un sogno, un ideale per garantire un domani migliore. Per questo l’arte non deve pensare più alla politica. L’arte, al contrario, è viva, intensa e forte, adesso come prima, non ha subito l’onta di questa società postcapitalistica assolutamente vuota non solo di valori, ma priva di immaginazione e di prospettive. In questo momento storico l’arte è una delle poche, possibili vie di fuga e una base per ricostruire, forse, un’identità, una realtà futura che abbia ancora aspettative di esistere, soprattutto in Occidente. Ma anche in Oriente, perché siamo ormai tutti in una specie di calderone indistinto, globalizzato».
Questo vuoto della politica ti preoccupa?
«Sì, mi preoccupa e mi rattrista. Un mio amico storico, parlando di questo declino della politica, di questa sua impasse della nostra società, una sera mi disse che, in genere, in questi casi, nella storia la soluzione, il cambio di rotta per una ricostruzione, sono stati prodotti da una guerra o da un’epidemia. Io non posso augurarmi né l’una né l’altra. Ma la storia ci ha abituato spesso anche a soluzioni impreviste e imprevedibili. Altrimenti sarebbe tutto troppo scontato».
Oggi come definiresti Pizzi Cannella?
«Un vecchio elefante…Pizzi Cannella è un pittore che segue un sogno e lo fa perché per lui è indispensabile».
Cesare Biasini Selvaggi
 

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