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Caravaggio 2025: Palazzo Barberini celebra l’opera del genio oscuro
Arte antica
È il 1595 quando Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, arriva a Roma. Ed è a questi anni che risale la grande ascesa dell’artista lombardo, nato a Milano nel 1571, rifugiatosi con la famiglia a Caravaggio per sfuggire alla peste del 1577, e mandato a studiare nella bottega di Simone Peterzano. E, sempre a partire da questi anni, la misurata mostra romana, allestita nelle sale del Palazzo Barberini, prende le mosse, per concludersi con l’anno della sua tragica morte a Porto Ercole, nel 1610. Quindici densi anni che hanno reso il Merisi uno tra gli artisti universalmente conosciuti, dopo la “riscoperta”, seguita a secoli di dimenticanza, da parte del grande studioso Roberto Longhi. Non è un caso che, per la prima volta nella storia, un’opera a lui attribuita, Maddalena in estasi, sia stata recentemente esposta nel Kiran Nadar Museum of Art di Nuova Delhi. Sono proprio questi quindici anni che la mostra, dal titolo Caravaggio 2025, vuole ripercorrere attraverso le ventiquattro opere (più una, ovvero Giove, Nettuno e Plutone, l’unico olio su intonaco realizzato dall’artista, conservato nel casino di Villa Ludovisi).

Galleria Borghese, Roma ph. M. Coen © Galleria Borghese
Provenienti da collezioni pubbliche e private, anche internazionali, i curatori della mostra, Francesca Cappelletti – direttrice della Galleria Borghese -, Maria Cristina Terzaghi – docente universitaria, tra i maggiori studiosi dell’artista – e Thomas Clement Salomon – quest’ultimo altresì direttore di Palazzo Barberini -, le hanno raggruppate, in ordine cronologico, in quattro specifiche sezioni: Debutto Romano, Ingagliardire gli Oscuri, Il Dramma Sacro tra Roma e Napoli e Finale di Partita. Tutte sezioni di immediata intelligibilità, cui fa eccezione la seconda, che mutua il titolo da un’espressione di Giovanni Pietro Bellori riferita a Caravaggio ne Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni (1672).

Nonostante nella biografia del Merisi, Bellori non vada tanto per il sottile, affermando che non possedeva «né invenzione, né decoro, né disegno, né scienza alcuna della pittura, mentre tolto dagli occhi suoi il modello, recavano vacui la mano, e l’ingegno», stroncatura che peserà a lungo sulla considerazione storica di Caravaggio, è dal dipinto di Santa Caterina che iniziò a «ingagliardire gli oscuri», fino alla massima espressione nella produzione per la cappella Contarelli. Un’esposizione, quella nella Galleria Nazionale di Arte Antica, sicuramente nata dalla volontà di ampliare l’offerta culturale nei giorni giubilari (il 2025 che segue il nome, sta a indicare proprio questo), che, nonostante non apporti nessun nuovo risultato storico-scientifico, se non quello di approfondire la riflessione sulla portata innovativa della sua pittura e la forte influenza sugli artisti a lui contemporanei (non a caso chiamati Caravaggisti), e non si allontani minimamente dal biografismo, ha l’apprezzabile merito, oltre all’esposizione di opere ritrovate e attribuite, di offrire la possibilità di osservare, così raggruppati, quei lavori altrimenti non agevolmente visibili, perché sparsi per il mondo, in varie collezioni e musei.

Oltre, ovviamente, a quelle della Galleria Borghese, dei Capitolini, del Barberini e Corsini, e del Palazzo Pitti, le opere provengono dalla Royal Collections, dal Detroit Institute, dal Thyssen-Bornemisza, dall’ Hartford, dal MET, dal Kimbell Museum, dal Nelson-Atkins Museum e dalla National Gallery di Dublino. Dipinti che, al contempo, mettono in evidenza anche i legami del Merisi con i potenti dell’epoca e non solo dell’Urbe, che gli commissionarono alcuni tra i più importanti capolavori. Tra gli importanti committenti, oltre al noto cardinale Scipione Borghese, non si possono dimenticare il cardinale Francesco Maria del Monte (a cui si devono i bellissimi Musici, la Buona Ventura e i Bari), il banchiere Ottavio Costa (a cui si deve San Francesco in estasi, prima opera sacra dell’artista a Roma), il monsignor Tiberio Cerasi, il monsignor Maffeo Barberini (futuro Urbano VIII – il cui ritratto, attribuito dal Longhi a Caravaggio nel 1963, è qui esposto al pubblico per la prima volta), Ciriaco Mattei (a lungo patrono nonché collezionista del Merisi: a lui si deve la commissione del bellissimo La cattura di Cristo).

Personaggi illustri, protagonisti dei numerosi ritratti realizzati da Caravaggio, nonostante la ritrattistica all’epoca fosse considerata una disciplina minore. Ma è altrettanto noto che, nei suoi quadri, Caravaggio spesso ricorresse anche a soggetti di non eccelso lignaggio. Come la celebre cortigiana Fillide Melandroni, modella per Marta e Maria Maddalena, Giuditta che decapita Oloferne e Santa Caterina d’Alessandria, tutte presenti in mostra. Un’esposizione che può raggiungere un maggiore completamento con la visita delle opere sparse nella Capitale. Ovviamente, ad aprire il percorso, è proprio la sezione dedicata agli anni dell’arrivo del Caravaggio a Roma che, inizialmente, lo vedono legato alla bottega del Cavalier d’Arpino, occupato nella pittura di fiori e frutta. Iniziale legame che, senza alcun dubbio, ha avuto un certo peso nella sua primissima produzione.

Il Mondafrutto e il Bacchino malato ne sono una piena attestazione. Un debutto, quello del Merisi, che ottenne immediatamente un gran successo, dal momento che, appena quattro anni dopo, si procurò la prima commissione pubblica nella Chiesa di San Luigi de’ Francesi, col ciclo dedicato alle storie di San Matteo, che darà avvio a una nuova fase della sua produzione, quella dedicata esclusivamente a temi sacri, come San Giovanni Battista, nonché il ritrovato Ecce Homo, per secoli creduto definitivamente perso, e, incredibilmente, individuato a Madrid. Fase che ben presto risente anche degli accadimenti biografici, rintracciabili nel potente David e Golia. Su tutti, l’uccisione, nel 1606, di Ranuccio Tomassoni, che lo portò a fuggire a Napoli (dove realizza la straziante Flagellazione), a Malta, a Siracusa e Messina, per concludere il suo peregrinare in un ospedale di Porto Ercole.