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400 colpi di illusioni di Max Ernst
Arte contemporanea
C’era una volta, un giorno o una notte fuori dal tempo di visionarie misteriose presenze, costellazioni di simboli apparizioni di un mondo onirico, alchimie impercettibili dentro i dipinti (un’ottantina) di Max Ernst (1891-1976), esposti nella importante mostra di Palazzo Reale, prodotta dal Comune di Milano con Electa in collaborazione con Madeinart, a cura di Jurgen Pech, tra massimi studiosi di Ernst e di Martina Mazzotta, figlia di Gabriele Mazzotta, editore e agitatore culturale che ha caratterizzato gli anni Ottanta e Novanta milanesi, tra le altre sue iniziative si ricorda una enciclopedica mostra del Surrealismo di oltre mille opere, a cura di Arturo Schwarz, a Palazzo Reale. Come immagine guida della mostra datata 1989 fu scelto il grande dipinto di Ernst Il surrealismo e la pittura (1942), un manifesto della sua immaginifica complessità.
Grazie alla prima retrospettiva italiana dedicata al genio versatile nato in Germania, vissuto a lungo in Francia e negli Stati Uniti, dove espatriò perché considerato dai nazisti “artista degenerato”, si può ripercorre al piano nobile di Palazzo Reale tutta la sua multiforme carriera all’insegna della sperimentazione di nuove tecniche e linguaggi, tra i fondatori del dadaismo a Colonia nel 1919, e come scrisse Duchamp, nelle sue opere si trova un inventario completo delle diverse epoche del Surrealismo.
Il patafisico Max Ernst è pittore, scultore, poeta e teorico dell’arte, un umo imprevedibile dalla vita avventurosa, accompagnato da grandi artiste e intellettuali come Leonora Carrington, Dorotea Tanning e Peggy Guggenheim, libero di pensiero e di azione, sopravvissuto a due conflitti mondiali che ha attraversato le prime avanguardie artistiche dall’espressionismo al dadaismo, fino al surrealismo, coltivano per tutta la sua esistenza l’interesse per filosofia, letteratura, anatomia, botanica, antropologia, psicologia, scienza e l’alchimia.
La mostra retrospettiva espone dipinti, collage, sculture, fotografie, gioielli, libri e documenti inediti; in tutto 400 opere in 9 sale tematiche che vanno oltre l’invenzione del collage senza colla, realizzate dal 1919, definite da Breton come “il biglietto da visita di un mago”, oltre il frottage, che pratica dal 1925 e del grattage, una derivazione pittorica del frottage e la decalcomania, fino al dripping con i barattoli forati, inclusi libri e documenti collezionati dall’artista stesso, più i meravigliosi romanzi-collage come La donna cento teste /senza teste del 1929. Questo e altro raccontano delitti, castighi e speranze del Novecento, vissuti in prima persona da Ernst.
Nel 1954 l’eclettico artista fu premiato alla Biennale di Venezia, ma ancora oggi in Italia rimane poco conosciuto rispetto ad altri grandi maestri del Novecento: l’obiettivo della mostra milanese è di collegare le opere alla sua rocambolesca vita, individuare il suo “sistema operativo”, i nuclei tematici che ruotano intorno all’uomo, in primis la memoria, l’inconscio, l’introspezione, la digressione sull’erotismo, l’anti-naturalismo; l’idea di un’arte totale che supera le barriere tra arte e vita, ed è una chicca la ricostruzione dell’intervento pittorico dell’artista nella casa di Paul Eluard a Eubonne negli anni Venti.
Ernst è un intellettuale raffinato, colto, elegante, attento al rapporto tra la parola e l’immagine, i sui interessi non si limitano alle arti visuali, tra le altre discipline in particolare lo affascinano la psicologia e la natura, infatti la metamorfosi, le foreste e l’ornitologia sono ricorrenti nel suo lavoro, come i temi classici e sacri dell’arte del Rinascimento italiano e tedesco. In mostra è chiara la matrice germanica delle sue opere, permettendo allo spettatore di conoscere il suo brulicante linguaggio, di compiere un viaggio extra-ordinario nel Novecento, nel segno di un’ arte enigmatica nell’inconscio del cosiddetto ‘secolo breve’ vessato da due conflitti mondiali, l’olocausto e la deflagrazione di due bome atomiche.
“Chi ha occhi per vedere, guardi. Chi non ha occhi per vedere, se ne vada”, diceva ironicamente Max Ernst. Prendetevi tempo per fruire meglio la miriade di dettagli che compaiono nei suoi dipinti mai banali, esplicito invito all’osservazione acuta di elementi misteriosi, paradossi, invenzioni formali che definiscono la sua line introspettiva dell’arte. C’è un sotteso fil rouge tra Giorgio De Chirico e Max Ernst, per entrambi la chiave di interpretazione delle loro opere è l’enigma, più metafisico e pietrificato nella modalità di rivisitare la memoria nel primo e più animato e freudiano il secondo: i maestri elaborano un diverso modo di rappresentare la finzione del mondo, fondato su una nuova arte di vedere la realtà filtrata dall’inconscio.
I capolavori in mostra sono molti, in particolare l’imprevedibile si fa visione nei dipinti Il bacio (1927) e Angelo di fuoco (1937), Oedipus Rex (1922) dipinto due anni prima del Manifesto del surrealismo, incanta il portfolio FIAT MODES pereat ars (1920) con otto litografie, finanziato dalla città di Colonia, con disegni di spazi interni ed interni, una criptica ricostruzione del mondo in chiave dadaista in cui natura e tecnologia s’intrecciano mirabilmente; è un manifesto di spunti tematici che Ernst svilupperà successivamente all’insegna della libertà espressiva, coniando un linguaggio forbito, enigmatico ed elegante, aprendo il nostro sguardo a complessi universi carichi di nuove attese e speranze, in cui dramma e bellezza, frammento e possibili ricostruzioni del mondo definiscono un nuovo umanesimo, apparentemente coerente ma in realtà complesso.