25 marzo 2020

Alighiero Boetti alla Galleria Christian Stein

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A Milano, alla Galleria Christian Stein, la mostra dedicata a Alighiero Boetti, è l'occasione per rivedere alcune delle opere fondamentali dell’artista e ricostruire le fasi iniziali della sua ricerca concettuale, poetica e umana

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Alighiero Boetti alla Galleria Christian Stein, courtesy Galleria Christian Stein

A Milano, alla Galleria Christian Stein, chiusa per l’emergena sanitaria, è in corso la mostraAlighiero Boetti” (fino al 4 aprile).

La mostra è «l’occasione per rivedere alcune delle opere fondamentali dell’artista e ricostruire le fasi iniziali della sua ricerca concettuale, poetica e umana; oltre che di ripercorrere il molteplice svilupparsi della successiva ricerca di Boetti, tracciando un racconto del suo percorso artistico attraverso una selezione di importati lavori», si legge nel comunicato stampa.

Vi raccontiamo il percorso espositivo attraverso una lettera idealmente indirizzata all’artista.

Alighiero Boetti alla Galleria Christian Stein, exhibition view, courtesy Galleria Christian Stein

Caro Alighiero,

ho deciso di scriverti questa lettera dopo aver visitato la mostra “Alighiero Boetti” che la galleria Christian Stein ti ha dedicato a Milano.
Di fronte alle tue opere – allestite nella sala di un palazzo signorile e rinascimentale – credo di aver finalmente capito perché l’arte tende alla soppressione del tempo. Il qui e ora si dilegua e il presente diventa un alef che racchiude passato e futuro.

Per l’inaugurazione, realizzata lo scorso febbraio, la galleria ha deciso di dare continuità a una lunga tradizione mandando gli inviti cartacei via posta, come se in quel gesto si annidasse la nostalgia di una vecchia abitudine tra amici. Questa volta però, l’immagine simbolo dell’esposizione è una fotografia del ’86 in bianco e nero, dove tu e Madame Stein (lei avvolta in una fantastica pelliccia bianca) ridete felici e spensierati durante l’opening di una tua mostra al Nouveau Musée di Lyon, parecchi anni dopo la tua prima personale del ’67.

Ho guardato quella fotografia a lungo cercando d’immaginare l’adesso che vi circondava allora: sembrava viaggiare indietro nel tempo. Poi, spinta di una sorta d’intuizione sono andata subito in galleria. Era un normale venerdì. Quel venerdì prima del fermo totale delle misure sanitarie e della volontaria segregazione, lontani da tutto ciò che fino all’altro ieri – non ci crederesti mai Alighiero – consideravamo regolare amministrazione.

Alighiero Boetti alla Galleria Christian Stein, exhibition view, courtesy Galleria Christian Stein

Nella galleria regnava la solita quiete pomeridiana. Sul pavimento avevano allestito Eternit (1967) nel centro della sala, approfittando forse dell’autorità acquisita dall’opera nel tempo. Con i suoi quattordici elementi rettangolari di fibrocemento, messo uno accanto all’altro, la scultura conserva ancora quell’irriverenza degli eventi che avviano un indirizzo di ricerca, come se in quella scelta avessi già previsto la scommessa della sperimentazione, con tutti quei così detti materiali extra artistici. Eri consapevole di fare la rivoluzione?

Ho guardando a lungo Eternit: ho girato attorno, mi sono accovacciata per scrutarla da vicino, ho persino controllato che i quattordici elementi fossero davvero quattordici. Ancora lì, in piedi, mi è venuto in mente il lavoro di un giovane artista: Fabio Roncato. Non molto tempo addietro avevo visitato il suo studio quando ancora viaggiavo nella metro noncurante di questo male invisibile. Fabio era impegnato nei dettagli di una sua installazione per uno spazio non profit, un’opera ambientale di dimensioni variabili. Si tratta di una superficie calpestabile, costruita con mattoni di recupero. Sono settecento, pagati trenta centesimi l’uno. Poi ha deciso d’intingerli nel blu della volta di Giotto. Dovresti vederli, è come camminare sospesi nel cielo. Oppure nel mare.

Insomma, ti racconto questo folle episodio per dirti soltanto che quel giorno, visitando la mostra da Stein, la tua Eternit dialogava, oltre qualsiasi confine spazio-temporale, con i mattoni di Fabio; mentre i ricami in esposizione (una grande mappa e altri più piccoli degli anni Novanta) mi riportavano a quel tuo primo viaggio in Afghanistan, alle mani esperte delle tessitrici, ai fili aggrovigliati delle opere di Maria Lai.

I vedenti (1985) però, uno dei lavori in carta riuniti in questa raccolta, è quello che ho amato di più, perché nel collage e le pennellate di acquarello, ho potuto rintracciare il tuo viaggio in Giappone, l’energia vitale della pittura zen e quella passione per l’inchiostro di china dei tuoi primi disegni di metà degli anni Sessanta.

Infine caro Alighiero, forse mi sono dilungata troppo, ma ora per me – per tutti noi – il tempo scorre dilatato, scandito dai nuovi rituali di clausura. La mancanza di un orizzonte cresce, la malattia si espande e la paura diventa collettiva. Trincerata dietro la mia scrivania oltre la finestra vedo i ciclamini fucsia, una signora con la mascherina in viso, le saracinesche abbassate, un bambino che si affaccia sul balcone. Vedo ansia e incertezza. Ma si allungo il collo e allontano soltanto un po’ lo sguardo, in quella viuzza chiara e raggiante, vedo Io che prendo il sole a Torino, quella tua opera del ’69 su cui poggia serena una bellissima farfalla.

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