06 dicembre 2019

Banksy è morto. Viva Banksy!

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Lo street artist più chiacchierato degli ultimi anni arriva a Genova. Abbiamo approfittato di stencil, serigrafie e gadget per ragionare sulla fenomenologia di un mito invisibile

Banksy – Rude Copper – 2002 - serigrafia su carta – cm 57x41 – courtesy Fondazione Palazzo Ducale

Non ha un’identità precisa, ma tanto la sua è «Comunicazione pura, non importa chi la fa» secondo Stefano Antonelli. Gianluca Marziani dal canto proprio lo definisce un «Artista concettuale». Sempre da Marziani le istruzioni per l’uso : «Il consiglio è di considerarlo un artista visivo».

Prima di mettere le mani sulla mostra “Il secondo principio di un artista chiamato Banksy” (curata da Antonelli e Marziani assieme ad Acoris Andipa, fino al 29 marzo 2020), e invocare infinite volte il nome di Banksy (Bristol, circa 1974), va individuato il contesto. Quello cioè di una Genova che col progetto On the wall nel post-ponte Morandi ha scoperto la qualità degli street artist, e il valore catartico dei loro lavori. Passare dai grandi murales, arrivati a ravvivare la fané zona Certosa, al più nebuloso – quanto famoso – street artist a Palazzo Ducale è un attimo. Meno anche delle sei fermate di metropolitana che separano Certosa dalla mecca culturale genovese.

Banksy – Love Is In The Air (Flower Thrower) – 2003 – serigrafia su carta – cm 50×70 – courtesy Fondazione Palazzo Ducale

È un attimo anche togliere agli astanti la certezza d’essere di fronte ad uno street artist, svanita in una manciata di minuti di presentazione ufficiale con le parole di Marziani riportate in apertura. I tempi cambiano, le mamme invecchiano e i Banksy crescono. Si evolvono, forse. Intanto non passa giorno che lui – o chi per lui, il MUDEC e Sotheby’s sono stati tra i suoi migliori supporter – combini qualcosa tra il mediatico e l’eclatante. Si – stavolta utilizzato con funzione affermativa – evolvono, probabilmente in un ibrido poco street e molto artist, mutuando però dalla vecchia scuola l’anonimato. Acquistando allo stesso tempo – a suon di banconote tarocche immaginiamo – l’aura di una celebrities, ché se non ce l’hai accaparrarsi il muro di un palazzo storico a Venezia non si risolve con una pacca sulla spalla.

Ma Banksy è innegabilmente acuto, e questa mostra tende ad evidenziarlo. Crea l’iconico Love is in the air, e la molotov che manca al manifestante se la prende lui, per scagliarla contro un sistema elitario, da fautore di un arte alla portata di tutti; in Festival (Destroy capitalism) si lancia contro il capitalismo prendendo la via secondaria dell’anti-capitalismo all’epoca del merchandising, ricordando che le ideologie di ieri oggi si pagano alla cassa. Attacca la monarchia britannica, stigmatizza i cliché sociali e il rincoglionimento delle nuove generazioni. Ah, mentre attacca la monarchia – biasimando l’incoerenza di una Regina Vittoria promulgatrice di leggi contro l’omosessualità, e praticante lesbo-chic – è pure paladino arcobaleno.

Banksy – Festival (Destroy capitalism) – 2006 – serigrafia su carta – cm 56×76 – courtesy Fondazione Palazzo Ducale

Banksy salva tutti dall’alto del suo anonimato, manifestandosi populisticamente come una specie di Tulipano Nero in salsa underground. Meglio della nostra M¥SS KETA catalizza l’attenzione sull’attualità dando un colpo ai contenuti e uno al contenitore, accantonando per partito preso il ruolo di “persona” in favore del “personaggio”. L’anticamera del marchio, cosa che Banksy (che si pronuncia “Benksy” come fa Marziani, unico tra tutti) di fatto è, e arrivato a questo punto puoi avere qualunque faccia, tanto vederla non fregherà mai a nessuno. Se non per sfizio. Che una volta tolto avanti il prossimo, Banksy questo deve saperlo bene. Nel frattempo la critica di mezzo mondo l’ha passato d’ufficio a portabandiera di una sempreverde Pop art. Talmente pop da confondersi con le pop star, e avere “«Lo stesso p.r. di Beyoncé, Christina Aguilera» come racconta Antonelli.

La mostra in sé è ragionata, tutto appare studiato nell’essere caciaron-epifanico, dal tabellone-cronistoria alle cover di cd e vinili di fianco alla Migrant Child in una Venezia tristemente allagata. A parte il guest-book, leziosamente materiato come una parete lavagna, da riempire con gessetti colorati. Farà divertire i bambini, o almeno si spera. Sull’altro lato uno spazio identico, dall’intestazione sibillina “Se io fossi Banksy”. Probabilmente “Se io fossi Banksy” non sarei dove sono, ecco.

Banksy – Queen Vic – 2003 – serigrafia su carta – cm 70×50 – courtesy Fondazione Palazzo Ducale

Poi c’è quello che solo a stampa e pochi altri è concesso di vedere, il lato emotivo ed emozionale della faccenda. Quando da un lato la Banksy-euforia si taglia col coltello, e dall’altro una lanciatissima direttrice della Fondazione Palazzo Ducale, Serena Bertolucci (la maglietta “Dismaland” indossata sotto la giacca è tanta stima), afferma «Non c’è niente alla moda o di pittoresco, è una mostra d’arte».

Fingiamo di crederci? Fingiamo, ad esempio, che si sarebbe potuto pendere e infilare nel sottoporticato uno dei tanti street artist presenti a chilometro zero sul territorio? E fingiamo, tanto ormai è stranoto che gli street artist soffrono di claustrofobia patologica quando si tratta di spazi istituzionali. Seriamente, il linguaggio di circostanza è sacrosanto e inscindibile da certe occasioni. Qui però – e detto con tutto il bene del mondo – sconfina nel perculamento coatto. Fosse stato Luca Bizzarri a parlare, avremmo almeno potuto appellarci alla sua ironia da presidente sovra-istituzionale.

Banksy ha il vip pass, ci mancherebbe. La novità è un’altra, è sapere che aleggia su Palazzo Ducale in quanto entità informata sui fatti. Antonelli tiene a precisare che questa mostra è stata approvata dal nostro, rimarcando il suo «Noi dialoghiamo con Banksy»; e, della serie “ho visto cose che voi umani”, aggiunge divertito «Sono mail surreali». Tornando al vip pass, quello ha comunque un prezzo, e costa a Banksy l’essere trattato dalle istituzioni come una griffe di grido made in Vietnam piuttosto che Taiwan. E che l’artista sia connivente o meno, che abbia rivisto le sue posizioni sul copyright o meno, l’importante resta sempre vendersi il marchio. L’etichetta in fondo non la legge nessuno.

Banksy – Lab Rat – 2000 – spray e acrilici su compensato marino e cornice in metallo – cm 50×70 – courtesy Brentwood (UK), Brandler Galleries, BGi/03

Alla fine s’impara che Banksy è il mondo dell’arte compresso in un solo nome, ma non uno street artist. O almeno non più. Più veloce di Jack Frusciante è uscito dal gruppo, con accondiscendenza, e questa mostra lo comprova. C’è un pezzo di palco, Lab Rat, legno dipinto a spray. È datato 2000, in tempi d’anonimato puro. Non stupisce perché basta essersi girati qualche periferia urbana per avere una sensazione di déjà vù. Per quanto riguarda i contenuti sicuramente c’è il topo-topos allegorico, imprescindibile nell’universo Banksy; c’è un mirino, altro elemento che Antonelli individua come caratteristico di lì a venire. Antonelli però fa anche un’altra cosa, giusta per un curatore intento nell’esegesi di chi sta curando, ma insolita se ci si ragiona su: accentuando il poco appeal degli esordi, apostrofa l’opera con un «Vi sembra Banksy?».

La risposta in coro è no, perché evidentemente lì non si riconosce il mainstream di oggi. Perché quel pezzo è stato riscoperto a carriera avviata, e solo successivamente certificato dalla Pest Control Office Limited, l’agenzia che rappresenta l’artista. È come dire che quel graffito prima era una pitturaccia qualsiasi, poi un Banksy, quindi pappa buona per collezionisti.

Banksy è nato, è morto, è risorto. Non ci ha messo tre giorni, ma una decina d’anni. Però c’è riuscito.

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