16 maggio 2025

Caravaggio e Jago, dialogo contemporaneo alla Pinacoteca Ambrosiana

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La Canestra di Caravaggio e la Natura Morta di Jago: un dialogo tra pittura e scultura, arte antica e contemporanea, come metafora della caducità della vita

È notizia di pochi giorni fa, quella di un vero e proprio tour turistico nei pressi di Gaza per assistere in diretta agli orrori della guerra. Il “tour del 7 ottobre”, documentato da Pablo Trincia, assicura ai visitatori un’escursione nei luoghi dell’attacco di Hamas, con sosta su una collina da cui “ammirare” i bombardamenti di Israele sulla Striscia. 162,87 euro a persona, caffè e pasticcini inclusi, il tutto prenotabile su TripAdvisor.

Ecco, forse nemmeno la più diabolica delle menti umane avrebbe potuto prevedere una simile iniziativa, né tantomeno un artista come Jago, che l’8 maggio scorso, quasi in contemporanea a questa notizia, è stato protagonista dell’apertura della mostra Natura Morta alla Veneranda Pinacoteca Ambrosiana di Milano.

La coincidenza è figlia di un tetro tempismo: l’opera dello scultore ciociaro, infatti, non è altro che una denuncia verso un mondo nel quale la morte è diventata proprio un prodotto di consumo. Natura morta rappresenta una canestra non colma di frutti ma di armi. Pistole, fucili e mitragliatori sono messi alla rinfusa dentro a un cesto, simbolo di una “natura” ormai contaminata dalla violenza e dalla serialità della produzione umana.

L’opera è stata installata in aperto dialogo con la celebre Canestra di frutta di Caravaggio, il dipinto più rappresentativo della collezione della Pinacoteca. Il contrasto tra le due opere è evidente: se nella pittura caravaggesca la bellezza della frutta matura diventa metafora della caducità della vita, Jago mostra invece come la fragilità e la morte nel nostro mondo siano frutto della determinazione umana. La quotidianità in cui viviamo – dice l’artista – è ormai permeata da una violenza silenziosa, che a volte, vien da aggiungere, diventa persino escursione per i turisti.

Come è nata l’idea? «L’idea è nata da un incontro con Jago – spiega il direttore della Pinacoteca Mons. Rocca – in cui ci disse che stava lavorando a quest’opera. Abbiamo pensato subito che potesse essere interessante esporla in relazione alla Canestra di Caravaggio. In essa, ad esempio, c’è una mela bacata che potrebbe essere interpretata come un segno della decadenza della natura. È nel ciclo della vita: nascita, corruzione e morte. Questo motivo era anche molto caro al nostro fondatore, che fu per altro il primo proprietario della Canestra di Caravaggio. Il rapporto con la canestra di Jago è molto evidente, come dice lui stesso. C’è un cesto, un cesto innocente, che non è buono né cattivo e in cui ci sono delle armi. Qui la fragilità non è più naturale ma determinata dalle scelte dell’uomo».

I detrattori di Jago – vista la sua popolarità sui social, potremmo definirli haters – potrebbero persino accusarlo di aver osato troppo, di aver compiuto un sacrilegio nei confronti di un dipinto così celebre. Eppure, l’impressione che si ha salendo le scale e accedendo alla sala nella quale sono esposte le due opere è di una grandissima armonia. Il marmo, materiale della tradizione, con la quale Jago non teme il confronto, rimanda alla storia dell’arte italiana e dialoga con la Canestra proprio per questa ragione.

D’altronde, una delle definizioni filosofiche più comuni di Armonia afferma che questa deriva dall’accostamento di due oggetti, due entità, apparentemente lontane tra di loro.

Scultura e pittura, Jago e Caravaggio, Seicento e contemporaneità, tutte cose che sembrano essere distanti tra di loro e che invece, una volta poste l’una di fronte all’altra, generano un grande senso di appagamento, un equilibrio raro e prezioso che l’arte del presente spesso fatica a instaurare con il passato.

L’accostamento è, per quanto ardito, riuscito e coerente. Per trovare un parallelismo, di armonia appunto, basta tornare con la mente ad appena due anni fa, quando al cinema uscivano, contemporaneamente, Barbie e Oppenheimer. Entrambi i film al botteghino hanno giovato della concorrenza dell’altro e il conflitto è diventato un tema stesso dei due film.

Ecco, la sensazione è che la Canestra di frutta di Caravaggio e la Natura morta di Jago, seppur in proporzioni differenti, possano ottenere la stessa fortuna.

L’arte di Jago

A guadagnarci è senz’altro lo scultore ciociaro, che coglie l’opportunità di essere messo a confronto con uno degli artisti più importanti della storia dell’arte.

Alessandro Baricco, in una delle sue tante lezioni tenute alla Scuola Holden di Torino, definisce gli artisti come persone che, a pochi centimetri di distanza da un dipinto, sanno benissimo dove apporre un piccolo puntino bianco, affinché, una volta prese le distanze dall’opera, quello appaia come il riflesso di un’iride o di un qualunque riflesso di luce.

Ecco, per Baricco, gli artisti sono quelle persone che hanno una visione d’insieme delle cose, da qualunque distanza le osservino. Anche in Oppenheimer, Christopher Nolan appone un piccolo pallino bianco, che agli occhi di molti spettatori è forse passato inosservato. Nolan veste il protagonista come un cowboy, lo fa andare a cavallo, a sua moglie fa scrutare l’orizzonte mentre stende i panni in giardino.

Gli americani hanno affidato ai film western il compito di raccontare la propria Storia e i film western raccontano dei coloni che scoprono l’Ovest, spesso ai danni dei Nativi. E Nolan ci dice questa cosa: guardate, cari spettatori, che Oppenheimer è un cowboy. Conquista il nucleare come i cowboy hanno conquistato il far west, senza farsi troppi scrupoli. È un antieroe americano.

Tutto il film, naturalmente, ragiona su questo possibile giudizio ma un piccolo indizio, un piccolo pallino bianco, ci viene fornito già dai costumi.

Tornando a Jago, quando ammiriamo le sue opere, e in particolare la Natura Morta, la sensazione che sappia perfettamente dove collocare quel pallino bianco è forte. Gli viene spesso riconosciuta la capacità di scolpire la pelle umana, e anche se qui di uomini non ce ne sono – vi è solo il nostro prodotto peggiore – la sua capacità di definire e curare i dettagli resta ed è ammirabile anche in quest’opera.

Si potrebbe perdere molto tempo a osservare pezzi di bravura come i piccoli particolari della cesta intrecciata, dei proiettili scanalati o del grip delle armi.

E forse non c’è solo la sua capacità artistica a stupire, ma anche il suo modo di fare, la sua persona, le sue scelte manageriali. Il Sistema Jago funziona a meraviglia, la sua Natura morta è un puntino bianco – letteralmente, è un elemento di marmo bianco in una sala buia – all’interno di un dipinto, di un mondo, molto più complesso, i cui ingranaggi però sembrano essere ormai ben oliati.

«Molti non apprezzano il suo linguaggio – conclude Mons. Rocca – per i chiarissimi riferimenti al passato, ma io trovo molto coraggioso il suo modo di plasmare la materia. Così come è coraggioso inserire sempre questo elemento di denuncia nei confronti della società in cui viviamo».

Insomma, forse a molti Jago non piacerà, e anche di fronte a questa sua ultima opera storceranno il naso, ma in un’epoca storica in cui l’arte è in qualche modo lontana dal grande pubblico e diventa sempre più elitaria, uno come Jago diventa, che piaccia o no, una figura chiave nel provare a restituire all’arte la sua centralità.

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