22 maggio 2025

Christian Bolt, pensare con la terra: intervista all’artista svizzero

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Christian Bolt ci parla del suo progetto triennale e multidisciplinare dedicato all’antica tecnica scultorea della terra secca, riscoperta come pratica sostenibile per affrontare le urgenze del nostro tempo

Christian Bolt
Christian Bolt

Da qualche mese gira sui social un trend chiamato #nostalgia. Mostra immagini di casette, di vie brulicanti di persone e di vita. Poi le clip vanno avanti e mostrano come questi luoghi si siano ridotti nel 2025. Scenari di abbandono, abitazioni diroccate, porte e finestre murate, arbusti e vegetazione spontanea che si riprendono la terra, gli spazi, la scena. Sono immagini della periferia di Maceiò, grande città del Nordeste brasiliano. Lì un’azienda ha sfruttato il suolo per 40 anni, attraverso gigantesche miniere di salgemma innervate sotto i quartieri periferici della città. Gli effetti? Smottamenti e terremoti locali e migliaia di abitanti maceioensi costretti ad abbandonare le loro case. La Natura, la terra, la materia, tornano prepotentemente lì dove sono state trattate con brutalità e indifferenza. Ma non sempre le cose vanno in questo modo. Anzi. Questa triste storia mi risuonava in testa mentre leggevo del lavoro di Christian Bolt, TERRA SECCA. Quasi un effetto rigenerante, lenitivo.

Christian Bolt
Christian Bolt

Quello dell’artista svizzero è un progetto triennale di ricerca artistica e scientifica, che unisce diversi settori della conoscenza. Classe 1972, originario di Uster, Bolt si è specializzato in scultura all’Accademia di Belle Arti di Firenze e ha alle spalle numerose mostre in gallerie private ed enti museali (Open12 di Venezia, Art Cologne, Scope Basel, Galerie Rigassi di Berna, museo Art St. Urban). Riconoscibilissimo per il suo stile delicato e muscolare, per le sue linee apparentemente in lotta tra loro, sempre in cerca di una tensiva definizione e ricomposizione, la sua rimane un’arte di redenzione e affrancamento, materico ma anche storico e morale. Così il cimentarsi nell’antica e dimenticata tecnica scultorea della terra secca: un’argilla essiccata all’aria e in grado di restituirci dimensione plastiche vive e audaci.

Christian Bolt
Christian Bolt

Ma non basta. Dall’analisi tecnica dei depositi di argilla del Cantone dei Grigioni all’impiego sperimentale di pigmenti e leganti naturali per il miglioramento della resistenza dei materiali (come la pietra calcarea della valle dell’Engadina), passando per un lavoro di archeologia dei materiali dedicati a primi usi artistici della tecnica della terra secca. È un importante lavoro di équipe, quello portato avanti dall’artista svizzero, attraverso la collaborazione con il Politecnico Federale e l’Università di Zurigo, gli uffici edili comunali e i servizi cantonali di geologia e diversi esperti dei settori dell’archeologia e della storia dell’arte. Una sinergia in grado di superare la settorialità e le divisioni tra arte, ricerca, scienza e natura e che culminerà in una grande mostra museale tra sculture, disegni, imponenti opere murali tutte realizzate con materiali di origine terrestre.

Ne parliamo con lo stesso Christian Bolt, in questa intervista.

Christian Bolt Selected Artwork

Scavare non solo nella memoria visuale, ma anche nella memoria tecnica e tecnologica del passato. Riscoprire, come nel caso della tecnica della terra secca, antichi gesti, antichi valori ma soprattutto percezioni dimenticate. Secondo lei quanto la materia pone interrogativi tecnici ma anche sfide concettuali e filosofiche? Possiamo ancora (e come), al giorno d’oggi, parlare di terra e di materia?

«Se, come società, perdiamo il concetto di terra e di materia, perdiamo la componente fondamentale, percepibile fisicamente, della nostra stessa esistenza. Ogni forma di spirito e intelletto sfocia o si collega, in qualche modo, alla materia per non dissolversi. In altre parole, anche lo spirito è materia. L’interrogativo filosofico di TERRA SECCA si fonda quindi sulla domanda: quale “materia spirituale” può essere estratta dalla terra e trasformata in un mondo artistico-estetico? La ricerca connessa alle generazioni precedenti, alla loro comprensione e alla loro tecnica, in questo progetto non ha l’obiettivo di ricostruire la tecnica della terra secca com’era un tempo. Piuttosto, l’eredità antica costituisce un punto di partenza da cui cerco di sviluppare nuovi procedimenti di lavoro e nuove ricette basate sulle risorse del suolo del mio habitat».

Viviamo in un mondo saturo di immagini e forme, spesso ottenute a buon mercato, con un semplice click, magari dall’intelligenza artificiale. Lei invece costruisce esperienze artistiche dense, frutto di memoria, sperimentazione, attesa, rapporto con la Natura. Quanto crede che il pubblico di oggi, magari anche chi è lontano dall’arte, abbia bisogno di sperimentare esperienze come questa di TERRA SECCA?

«La società moderna soffre della costante ansia di non voler perdere nulla. Il sociologo americano Richard Sennett descrive questa tendenza nel suo libro L’uomo flessibile con il termine “drift” — l’adattabilità sembra contare più della crescita. La Natura, al contrario, è maestra di crescita organica e sana, di sviluppo. Chi vuole svilupparsi in modo equilibrato dovrà orientarsi secondo i principi della Natura. Il bisogno di una cultura dello sviluppo è oggi più grande che mai. Con il progetto TERRA SECCA si vuole contribuire a creare, all’interno della società, una cultura dello sviluppo e della costruzione. Il punto di partenza è semplicemente il suolo su cui poggio i piedi».

Mi incuriosisce molto questo “incontro” con la sua terra, nel vero senso della parola. Una terra fredda, nuda ma anche familiare, materna, la sua terra, dove lei è nato. Il progetto prevede infatti un mandato sociale, scientifico, esplorativo ma anche poetico e antropologico. Un incontro e una collaborazione con la sua comunità, culturale, politica e scientifica. Per lei l’artista deve ragionare sempre in termini di individualità, di storia personale oppure deve cercare di ascoltare le istanze, la dimensione della collettività? Farsi insomma portatore di un messaggio sociale, condiviso?

«Il contatto con la “propria” terra è per me anche un contatto con la propria potenzialità. La terra è simbolo di fondamento vitale e di crescita. Tuttavia, il potenziale di crescita è sempre dialettico, dunque non soltanto individuale.
La composizione interdisciplinare dei partner del progetto svolge per questo un ruolo fondamentale in TERRA SECCA. Insieme intraprendiamo un viaggio di scoperta che mette in dialogo in particolare arte e filosofia con le scienze naturali.
In definitiva, si tratta di trasformare conoscenze e consapevolezze in un mondo estetico. Questa contaminazione ha lo scopo di stimolare la società sui temi della sostenibilità e dello sviluppo delle capacità. La visione è che il pensiero della potenzialità, attraverso questa forma di cultura, possa fornire agli osservatori una forza d’azione».

Lei sta cercando di aggiornare un’antica tecnica come quella della terra secca, rendendola più duttile e versatile e usando materiali e processi sostenibili. È questa, secondo lei, la direzione futura dell’arte? Oppure l’arte, per la sua eccezionalità, dovrebbe mantenere una certa licenza nell’uso di materiali meno sostenibili?

«Per la mia arte, la ricerca della sostenibilità del pensiero rappresenta senza dubbio il futuro. La vera domanda, in ambito artistico, non riguarda tanto la sostenibilità del materiale quanto quella del pensiero. Ci si può dunque chiedere: in un materiale non sostenibile, possono essere conservati pensieri sostenibili? Fondamentalmente, credo nella trilogia materia–forma–contenuto. Ogni contenuto ha la sua forma, e ogni forma ha il suo materiale. Questa analisi strutturale è stata già oggetto di studio da parte dei biologi che si sono occupati della morfologia e dell’isomorfologia del mondo vegetale».

Le parole di Karl Kraus la ispirano da sempre: “L’amore e l’arte non abbracciano ciò che è bello, ma ciò che diventa bello attraverso l’abbraccio”. Mi è venuto in mente anche Immanuel Kant, che diceva: “Il Bello artistico è tale che sembra Natura”. La Natura ci insegna tanto, in termini di scienze mediche, sui materiali, sulla vita. Quanto può insegnarci qualcosa anche sull’arte stessa? Quanto la Natura secondo lei è già Arte?

«Dal mio punto di vista, la Natura è la creazione di un Creatore. Attraverso la sua percepibilità fisica, imparo e scopro qualcosa su questo Creatore e, in particolare, su come io stesso mi inserisco in questa realtà. Auguste Rodin diceva che la Natura è il più grande maestro per le arti. Questo vale anche per me: riconosco in essa un riflesso sulla mia stessa esistenza. Se mi considero parte della Natura, essa sarà in grado di raccontarmi molto sulla mia vita. Il rapporto con la Natura, e qui sta la bellezza dell’arte, deve però essere sempre trasformativo. Non si tratta di imitarla, ma di utilizzare i suoi principi per la propria evoluzione».

Christian Bolt Atelier Klosters, Courtesy of Atelier Bolt

Alcune sue opere sembrano “lottare” con la materia da cui fuoriescono. Lottare o abbracciarsi. In ogni caso c’è uno sforzo, una sorta di fatica. Quanto secondo lei risulta doloroso, impegnativo, questo continuo confronto tra l’arte, la vita e la materia, la terra, sostanza inanimata e nuda? È una lotta dolorosa o un caldo abbraccio?

«Nel principio dell’opposizione — in cui ogni forma di sviluppo diventa possibile — vi sono sempre entrambe le cose: è il respiro, inspirare ed espirare, che rende possibile la vita. È quindi sempre un abbraccio caldo e freddo insieme. In quest’ottica, la fatica diventa una necessità. In questo sistema risiede anche la massima libertà e, finché lo sforzo porta allo sviluppo, l’essere umano resta motivato ad andare avanti. Il principio antagonistico della nostra esistenza ci insegna allo stesso tempo il cammino dello sviluppo, e il progresso è fonte di gioia».

1 commento

  1. In merito alla tecnica” terra secca” non credo che questi lavori possano essere messi all’aperto!? Non essendo cotta l’argilla con la pioggia si rovina.

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