12 dicembre 2022

Focus curatori in 22 domande: intervista a Efisio Carbone

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22 domande per curatrici e curatori, spesso outsider, per raccontare tutte le declinazioni più attuali di un ruolo di responsabilità: la parola a Efisio Carbone, “curatore oltre il rumore bianco”

Visita alla mostra di Sylvie Fleury, Torino

Prosegue il nostro “FOCUS curatori”, 22 domande (le stesse per tutti) destinate a curatori e curatrici spesso “outsider”, per raccontare attraverso declinazioni personali, caratteristiche, metodologie e modalità proprie della professione curatoriale odierna. Un mestiere relativamente nuovo che, nel corso di qualche decennio, ha cambiato radicalmente forma. Una pratica dinamica, basata su studio, fonti d’ispirazione e conoscenze interdisciplinari. Un ruolo di “cura” e responsabilità nei confronti degli artisti e delle loro ricerche, del pubblico, di attenzione ai cambiamenti nella società, nel dibattito sociale, politico e culturale del momento. La quinta puntata della nostra rubrica ha per protagonista Efisio Carbone.

Efisio Carbone, ritratto
Efisio Carbone, ritratto

Come ti definiresti?

«Curatore per vocazione, professore per passione, direttore per formazione».

Dove sei nato e dove vivi?

«Sono nato nel sud Sardegna, a Iglesias, una bella cittadina ricca di monumenti che vanta una complessa storia di miniera. Sono partito per ragioni di studio, per rientrare poi a Cagliari dove vivo e lavoro. Amo il centro città, ho scelto il quartiere Marina come residenza: allegro, colorato, multietnico, affacciato sul porto e il mare».

Ruben Montini, Il Vuoto Addosso, 2022; Performance 12’; Documentazione della performance presso il Museo Ettore Fico, Torino; Courtesy l’artista; Ph Nicola Morittu

Dove vorresti essere nato e dove vorresti vivere?

«Non penso di avere ragioni valide per scegliere un altro luogo di nascita, i valori comunitari li ho conosciuti e assimilati. La Sardegna è una terra straordinaria come luogo di ispirazione e parte della formazione, ma è necessario muoversi, spostarsi per creare opportunità di confronto, arricchimento, carriera. Se fosse una grande città sicuramente Torino più che Milano. Siccome, però, credo fortemente in un ritorno alla ruralità, dico qualsiasi comune sotto i 3.000 abitanti».

Quando hai capito che ti interessava l’arte?

«Quando ho preso il carboncino in mano, ho scoperto che sfaldarlo con le dita generava ombre sulla carta. Ho sfogliato avidamente i Bertelli dei miei due fratelli maggiori. I miei genitori ci portavano in viaggio per le regioni italiane attraverso itinerari culturali straordinari. Ho passato ore nei musei a testa in su, nelle chiese, senza distinguere quasi differenze: dalla Cappella Brancacci a Palazzo Pitti, ricordo lo stupore per la Lingua incorrotta di Sant’Antonio da Padova, credo sia stata l’aura di quell’oggetto a folgorarmi».

Artesplora, progetto didattico multimediale del Museo MACC

Quando hai deciso che avresti fatto il curatore?

«È avvenuto naturalmente, penso che siano gli artisti stessi, quando ti occupi di autori viventi, a riconoscerti come tale, la formazione di storico dell’arte è necessaria all’interpretazione dei linguaggi, alla valutazione, la visione, ma la comunicazione intima, la fiducia, l’empatia che puoi scegliere di sviluppare oppure no, sono elementi caratteriali che hanno a che fare con la predisposizione».

Calasetta, ingresso museo MACC. Ph. Rosi Giua

Quali sono i libri che ti accompagnano nel tuo percorso professionale da curatore?

«Enrico Crispolti, Come studiare l’arte contemporanea; Gillo Dorfles, Le oscillazioni del gusto; Gillo Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi: dall’informale al neo-oggettuale; Salvatore Naitza, Immagine e somiglianza, Arte e artisti di ieri e di oggi, alcune letture. Mi piace rileggere i classici: Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica; Ernst H. Gombrich, Julian Hochberg, Max Black, Arte, percezione e realtà. Attualmente sono interessato a letture quali: Romano Gasparoni, Il quadro Invisibile; Giulia Grechi, Decolonizzare il museo; Ian Chambers, Paesaggi Migratori; Gayatri Chakravorty Spivak, Critica della ragione postcoloniale».

Spazio (In)visibile, Mostra Studio ’58, Cagliari, 2012

Quali sono le fonti, gli autori e le opere extra-arti visive, di cui ti nutri nello svolgimento della tua attività scientifica?

«Sicuramente la musica: ho studiato Composizione al Conservatorio in gioventù e cantato per molti anni in un coro di musica rinascimentale. Amo Palestrina, Bach, Ligeti, Schönber; il Don Giovanni di Mozart e Einstain on the Beach di Glass. Credo molto nel valore delle sinestesie nel campo dell’arte, niente argini o confini».

Gaetano Brundu dipinge il grande baffo rosso, Spazio (In)visibile, Mostra Il graffio del leone, 2012, Cagliari

Qual è la mostra che ti ha segnato e perché?

«Ti dirò l’ultima. Non è una mostra, ma la performance di Ruben Montini tenutasi al Museo Ettore Fico durante la recente edizione di Artissima. Si intitola “Il vuoto addosso”. È sabato mattina, una bella luce diffusa entra dalle finestre del primo piano del Museo, si attraversa velocemente la mostra Eclettica, un saggio d’intelligenza allestitiva del direttore Busto che è riuscito a rendere ancora più straordinaria la collezione permanente del museo in dialogo con il fondo Alpegiani.

Il pubblico staziona per alcuni minuti davanti a una grande parete bianca. Vietato l’accesso: saluti, di circostanza, un po’ silenziosi, sorridenti, giacche sulle braccia, borse di tela di fondazioni torinesi, brochure stropicciate, ci si riconosce. Finalmente si accede. Ruben sta lì silenzioso, di schiena, un calzoncino sporco di argilla. Sul corpo i segni di passate performance in silenzio anche loro. Cosa fa? Modella una scultura, ormai è già giunto alla testa; il corpo d’argilla fresca è instabile puntellato di legni che lo sostengono, la materia sembra si sciolga mentre l’artista prosegue col modellare il volto. Intorno i fotografi documentano la performance, presto non danno più fastidio. Tutto il pubblico su col telefonino, ormai non siamo più capaci di registrare con gli occhi. Ruben prosegue di spalle, si inchina per raccogliere pezzi di argilla, si bagna le mani, una fanghiglia corre sulle braccia come una vena che si fa strada sul corpo, lacrima sugli insulti tatuati, sulle braccia, sui desideri incompiuti. Ruben sempre di spalle, ora macchia l’argilla di polveri colorate, ecco  gli occhi che lo guardano. D’improvviso l’azione accelera, i legni che sostengono la scultura sono divelti, cadono a terra, l’eco sulle volte, ci salta sopra e l’abbraccia, si aggrappa, la stringe, come l’ultimo respiro alla vita, tenacemente si sostiene mentre tutto frana e si sgretola, sono pochi secondi e poi giù, cade tra le macerie nel silenzio assoluto.

Credo che il mondo si sia fermato. Il mio cuore è a pezzi mentre rifletto quanto senso possa avere aggrapparsi al ricordo di qualcuno per vederlo morire come è stato per l’amore. Il tempo guarisce ogni ferita, recita l’adagio, no il tempo è la conseguenza di un’esistenza condotta con le ferite addosso. La terribile solitudine di sentirsi diversi e inadeguati spazzata via dal coraggio di raccontare verità collettive. Un momento di catarsi irripetibile. Ancora ci rifletto. Grandioso».

Maria Lai, REINAS, Museo Ettore Fico

Qual è l’opera d’arte che ti ha avviato nei sentieri della professione nelle arti visive?

«La Madonna con Bambino e Angeli di Filippino Lippi, nella riproduzione sul letto della casa dei miei nonni materni. Restavo incantato dalla sua bellezza, sono ancora così, nonostante tutte le delusioni vissute».

Quali artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nell’avviamento della tua professione? E perché?

«Sicuramente Rosanna Rossi è tra questi, conosciuta grazie ai legami con la Cattedra di Storia dell’Arte di Maria Luisa Frongia e l’intenso lavoro del Centro Man Ray di Cagliari che mi ha introdotto alla professione curatoriale. Ricordo ancora l’impressione che mi fece visitare il suo studio e sentire tracciare con estrema lucidità le ragioni della sua pittura contestualizzandola alle ricerche territoriali e internazionali. A un certo punto, spuntarono dalla rastrelliera le ombre profonde di un tondo nei toni freddi del blu, un Omaggio a Raffaello indagava i velluti delle maniche dei nobili figuranti della Messa di Bolsena: il miracolo era lì».

Mostra Dolce è la Guerra, Rosanna Rossi, Regina José Galindo

Quali sono stati i tuoi maestri diretti e/o indiretti nella curatela?

«L’università ha sicuramente avuto un ruolo importante, la Cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea teneva legami forti con i principali centri di produzione culturale incarnati soprattutto dagli spazi off del territorio cagliaritano. Legami di tradizione come già fecero Corrado Maltese, Gillo Dorfles, Marisa Volpi Orlandini, Simonetta Lux, Salvatore Naitza, che diedero straordinario impulso al contemporaneo nelle stagioni fortunate degli anni passati. Tra la fine degli anni novanta e i primi 2000 il Centro Culturale Man Ray promosse con una serie di iniziative la produzione dei maestri storici del secondo novecento, con un occhio di riguardo verso i giovani che si affacciavano all’arte freschi di liceo e di accademia (presente solo a Sassari). Frequentare gli spazi off, a cui aggiungo Spazio (In)visibile, Spazio P, Suoni e Pause, Casa Falconieri, Fondazione Bartoli – Felter, è stata la scuola più efficace; l’artista Wanda Nazzari, presidente del Man Ray, amava circondarsi di giovani storici dell’arte a cui insegnava a rimboccarsi le maniche: c’erano momenti di riflessione sul significato delle mostre e momenti in cui bisognava battere i chiodi e risolvere problemi di natura allestitiva».

Santiago Sierra, Enterramiento de Diez trabajadores, Burial of Ten Workers, 2010. Calambrone, Italia, Installation of 6 photographs, b_w lambda prints on dibond. Courtesy Prometeo Gallery

Con quale progetto hai iniziato a definirti curatore?

«Una mostra collettiva al Castello di San Michele di Cagliari: Stanze, di luce e di tempo. Un progetto non semplice perché raccoglieva artisti di differenti generazioni. Ricordo ancora il salto che fece dalla sedia il custode quando provai la filodiffusione con il Poema Sinfonico per 100 metronomi di Ligeti o quando mi svegliò all’alba uno degli artisti perché quello che avevo scritto lo aveva messo in crisi. Il giorno dell’inaugurazione tutto assunse il suo perché, provai una grande serenità, la voglia di restare solo».

Qual è la tua definizione di curatore?

«Colui che ha la capacità di ascoltare oltre il rumore bianco. Sono convinto che non esistano centri di produzione culturale o territori più o meno fertili. Sono le opportunità a essere diverse. Queste producono gerarchie di valori a discapito delle periferie. Un curatore ha il compito di dedicarsi a tali luoghi, mediare, facilitare lo sviluppo delle opportunità. Non deve immaginarsi con gli occhiali laccati, vestito alla moda, in uno spazio neutro, tre lingue in tasca a parlare di nuova pittura con in mano un bicchiere frizzante e occhi dietro la nuca per vedere se passa qualcuno di più interessante dei suoi interlocutori. Deve raccogliere il disagio, entrare negli studi stretti e sovraccarichi di opere, stare sulla strada, consumare la notte parlando di ingiustizia, mercato malato, assenza di prospettive. Deve essere un combattente che sceglie la salita più faticosa per raggiungere l’obiettivo. Il suo mestiere non è fatto di estetica ma di etica, contro ogni forma di oppressione o di disconoscimento dei diritti delle minoranze. Suo compito è riscrivere le pagine di una storia dell’arte spesso razzista, misogina, colonialista che ha dimenticato sulla strada una tale ricchezza di espressioni che se non recuperate rischiano di impoverire irrimediabilmente il mondo».

Visita guidata con il Direttore Efisio Carbone, curatore della mostra Dolce è la Guerra per chi non l’ha vissuta, Museo MACC

Qual è la tua giornata tipo?

«La mattina dopo la sveglia, una corsa sul porto con Beethoven, da casa alla Galleria Comunale di Cagliari c’è una bella passeggiata in salita verso il quartiere di Castello. Ad accogliermi i cancelli dei giardini pubblici con il parco meraviglioso e un bel gruppo di persone che corre o medita sul prato. Il mio ufficio è dentro la quadreria della Collezione Ingrao, qui svolgo il lavoro nella Direzione dei Musei Civici di Cagliari insieme agli altri componenti e allo staff dei musei. Dopo il lavoro, la giornata prosegue con gli incontri con artisti come Simone Dulcis e Lea Gramsdorff ai quali sono molto legato, responsabili di spazi culturali, curatori con cui si parla di progettazione futura. La sera si stacca con amici e vita privata, sempre troppo trascurata.

Il weekend è destinato al museo MACC di Calasetta. Arrivare sull’isola di Sant’Antioco accende il cuore, è un’energia che ti abbraccia da come attraversi il ponte e che culmina entrando nel borgo bianco, silenzioso, ordinato di Calasetta fino alle geometrie colorate del portale del museo MACC. Apro, ad accogliermi il sorriso dello staff, Sara, Eletta, Silvia, la presidente Maria Carla Armeni: sono a casa».

Museo MACC, collezione permanente, ph. Max Solinas

Hai dei riti particolari quando lavori?

«I giorni degli allestimenti le grandi sofferenze delle elucubrazioni mentali sono pressoché esaurite, si attendono pentimenti e ripensamenti, ma in questo preciso momento il cuore è a mille, come un direttore d’orchestra prima di battere le prime note. Stappare una bottiglia di vino e mettere musica favorisce sicuramente il buon andamento della situazione, ma non sempre si può fare purtroppo».

C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?

«Assolutamente sì, anzi direi che è necessario, l’imprevisto può essere un’opportunità, non va demonizzato. Bisogna calcolare i tempi degli imprevisti e inserirli su Gantt; le soluzioni arrivano e tutto magicamente si ricompone un minuto prima di aprire le porte. Nervi saldi, comprensione, diplomazia, problem solving».

Veduta di Calasetta dalla Spiaggia Sottotorre, ph. Roberto Zucca

Qual è il progetto, la mostra che hai curato che trovi più rappresentativa del tuo percorso scientifico?

«Sono diverse le mostre che giudico pietre miliari del mio percorso: sicuramente l’ultima mostra dell’artista Gaetano Brundu, tra i più importanti artisti del secondo novecento della Sardegna, di temperamento mite, schivo, profondissimo filosofo. Siamo allo Spazio (In)visibile nel quartiere della Marina, gestito da Thomas Lehner, dentista tedesco con un enorme cuore, amico degli artisti, appassionato quanto onesto, il suo cenacolo piace anche a chi è ormai irrimediabilmente deluso dal sistema dell’arte: lo trova genuino, spontaneo, senza fini occulti. Anche Brundu si fida di lui e di conseguenza si fida di me. Disegna un enorme baffo rosso sul pavimento bianco dello spazio su cui pendono sospese opere degli anni ’60 e ’70. Non dipingeva da quasi trent’anni essendosi dedicato esclusivamente al collage fotografico virtuale. Il giorno del vernissage entra la professoressa Frongia, ordinario di storia dell’arte contemporanea dell’Università di Cagliari, e mi dice: “Come c’è riuscito a farlo dipingere?”. Non ero stato io. Io l’avevo solo chiesto e mi aveva detto di sì. Il miracolo lo aveva fatto il luogo, io raccoglievo il risultato. Avevo ottenuto la sua fiducia.

Alla mostra di Brundu erano arrivati a omaggiarlo alcuni artisti della sua generazione. Fu uno spettacolo sentirli parlare delle battaglie intraprese alla fine degli anni cinquanta per poter esprimere le ricerche più sperimentali in un contesto culturale e artistico terribilmente provinciale. Con Thomas ci venne quindi l’idea di avventurarci nella realizzazione di una mostra su Studio ’58, gruppo che inaugura la felice stagione delle sperimentazioni dei linguaggi contemporanei in Sardegna, seguito dal Gruppo A di Sassari, da Gruppo di Iniziativa, Transazionale, Centro di Cultura Democratica, ecc. Fu una mostra sensazionale, costruita con il favore e la generosità degli artisti ancora viventi, dei loro collezionisti. Su tutti, l’ottico Franz che prestò i suoi locali a questi scapigliati rivoluzionari che non avevano accesso ai centri culturali prestigiosi della città. Lui raccontava quegli avvenimenti come appena accaduti, con gli occhi accesi dai ricordi dietro la montatura dorata dei suoi occhiali. Oggi Franz non c’è più, non c’è più Brundu, non c’è più il baffo dipinto sul pavimento di Spazio (In)visibile coperto dalla storia di altre mostre.

Anche Ugo Ugo non c’è più, mitico direttore della Galleria Comunale di Cagliari tra gli anni ’60 e ’80. Ugo ha dato vita a una delle collezioni più interessanti e complete d’Italia dedicate ai linguaggi più sperimentali degli anni ’60-’70. Parliamo di opere straordinarie di artisti come Adami, Arroyo, Pozzati, Gilardi, Spagnulo, Griffa, Gallina, Boriani, De Vecchi, Pesce, Biggi, Alviani, Pace, Nespolo, Castellani, Carena, Agnetti, Trubbiani, Uncini, Bonalumi, Pomodoro, Staccioli, e tanti altri. Ho avuto il grande privilegio di curare un riallestimento negli spazi della Passeggiata Coperta di Cagliari e progettare degli approfondimenti insieme a Tiziana Ciocca, Stefania Mele e Roberta Sonedda, colleghe storiche dell’arte dei Musei Civici. Oggi la collezione è interamente rientrata nei caveau. La politica cittadina incoraggia i musei a dedicarsi alle mostre temporanee.

Anche la mostra REINAS, curata al Museo Ettore Fico, la ritengo un bell’esempio di promozione degli artisti sardi, anzi delle artiste sarde, visto che riguardava Maria Lai, Rosanna Rossi, Zaza Calzia e Lalla Lussu. La mostra ebbe un buon successo nonostante la pandemia in corso, merito della direzione del museo: Andrea Busto, Giuseppe Galimi e Cinzia Defazio e, soprattutto, del collezionista torinese Renato Alpegiani che riconosce e stimola la valorizzazione di artisti straordinari inspiegabilmente sottratti alla fama.

L’ultima esperienza importante riguarda la realizzazione di due mostre sulla città di Cagliari all’Istituto italiano di Cultura di Cracovia e a Varsavia, le mostre co-curate con la collega Tiziana Ciocca sono prodotte da Orientare Srl, società che gestisce molti beni e musei della città di Cagliari con grandi capacità e attenzione per il personale, vero motore della valorizzazione del patrimonio culturale cittadino».

Lo staff del MACC a un convegno

A tuo avviso, qual è lo stato della critica d’arte in Italia?

«I grandi critici che ho avuto modo di citare nelle domande precedenti, a cui aggiungo Lea Vergine, non ci sono più. Oggi la critica si muove tra l’esterofilia e l’esigenza di rendere accessibile e divulgativa la materia, con risultati spesso superficiali e sterili. Il mercato agisce da fattore condizionante e non viceversa. Si scrive solo per scriverne bene: una moltitudine di brevi saggi da consumarsi il giorno del vernissage di critici e curatori che spesso occupano uno il posto dell’altro per economie di scala.

Conosco sedicenti critici/curatori che hanno scritto trecento volte lo stesso saggio e curato trecento volte la stessa mostra, alzano la voce nel deserto convinti di ruggire come leoni. Più che ottenere consensi, spaventano. Lea Vergine ha scritto che l’arte non è per persone per bene, ma neanche per disonesti che approfittano dell’insicurezza e della poca preparazione del prossimo. Ci sono critici che vendono l’esperienza d’artista come il sapone sciogli pancia della celebre reclame, pacchetto completo: mostra, catalogo e spumante per amici e parenti. In questo l’università ha un compito fondamentale: finanziare la ricerca seria e la produzione letteraria di qualità.

Ho molta fiducia nei miei colleghi oggi titolari di Cattedra di Storia dell’Arte dell’Università di Cagliari, Pamela Ladogana, Andrea Pala, Simona Campus; quest’ultima cura il Museo Universitario delle Arti e delle Culture Contemporanee e sta svolgendo un programma straordinario di valorizzazione delle figure femminili centrali per la storia dell’Arte Contemporanea italiana».

Quali sono i tuoi riferimenti critici?

«James Elkins, What Happened to Art Criticism?, 2003».

La mostra di un altro collega che avresti voluto curare?

«Ci penso ancora un po’ e te lo dico».

Quale ritieni che sia il tuo più grande limite professionale?

«La comfort zone che genera la terra sarda. Parliamo di un luogo magico, energetico, in cui la vista si appaga di prodigi quotidiani, è una terra che ispira ma che impigrisce. Qui l’autoreferenzialità è dietro l’angolo, si rischiano microguerre tra fazioni opposte più che reti ben strutturate. La politica arresta bruscamente i processi, anche quelli virtuosi. Mancano visioni a lungo termine, sostegni reali e costruttivi. Quante volte vorrei prendere l’aereo e salutare tutti dalla scaletta, ma c’è troppo da fare».

Inaugurazione mostra sulla città di Cagliari, Cracovia, itituto italiano di Cultura

Progetti in corso e prossimi?

«Alla Fondazione MACC stiamo per chiudere il primo appuntamento di un programma triennale dedicato all’arte come azione, come forma attiva e militante sui territori. È il caso della mostra Dolce è la Guerra per chi non l’ha vissuta, realizzata in collaborazione con la Galleria Prometeo di Milano-Lucca e la Collezione Alpegiani. Portare a Calasetta opere di Filippo Berta, Zehra Doğan, Regina José Galindo, Edson Luli, Santiago Sierra, Tamàs Kaszàs, Tonel, Carol Rama, Maria Lai, Rosanna Rossi, Eva Fischer, in piena stagione estiva; stimolare la coscienza comunitaria verso i temi delle guerre, dei conflitti sociali, delle ingiustizie, dei soprusi sulle minoranze, dentro un clima vacanziero, leggero, incurante, è stato molto coraggioso e ne siamo orgogliosi.

Andiamo avanti con la stagione invernale con l’attivazione di una serie di servizi destinati alla comunità calasettana: lezioni di arte, archeologia, lingue straniere, concerti, cinema, dentro il museo che riscopre la sua collezione permanente, un momento di riflessione sul patrimonio comune che va protetto e valorizzato con un approfondimento del grande artista Paolo Masi in collaborazione con le gallerie Massimo Ligreggi di Catania e Frittelli di Firenze. I musei di frontiera devono essere attivatori di processi culturali ed economici, promuovere un legame sostenibile tra territorio e comunità. Con sguardo bifocale devono valutare ciò che accade intorno a se stessi e, contemporaneamente, oltre il mare.

Le residenze internazionali a cura di Claude Corongiu, già proprietaria della Galleria Macca di Cagliari, aggiungono grande valore alla nostra programmazione che si arricchisce di nuovi sguardi ed energie creative in questo costante e straordinario scambio di doni tra artisti e stanziali.

In primavera, con la mostra di Ruben Montini dedicata alla storia delle sue Performances, il museo riprende la programmazione delle mostre temporanee e del progetto “Arte come Azione”».

Rosanna Rossi, Forma Sonata, Museo MACC

Chi è Efisio Carbone

Laureato in Lettere Moderne con orientamento artistico all’Università degli Studi di Cagliari, si è specializzato in Storia dell’Arte Contemporanea presso la Scuola di Specializzazione della stessa università, con una tesi sul patrimonio artistico contemporaneo di proprietà della Regione Sardegna.

Ha collaborato con la Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici per le province di Cagliari e Oristano e con la Regione Sardegna in ambito di progetti di catalogazione e valorizzazione. Ha portato a termine una borsa di ricerca biennale presso l’Università degli Studi di Cagliari, cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea di Maria Luisa Frongia.

Alle spalle una lunga carriera curatoriale iniziata con il Centro Culturale Man Ray di Cagliari, ha curato numerose mostre personali e collettive, in particolare a Cagliari, dove si è dedicato alla valorizzazione degli spazi Off dedicati alla cultura. Collabora con la Galleria Macca, lo Spazio (In)visibile, la Fondazione Bartoli-Felter di Cagliari. Attualmente è componente di Direzione dei Musei Civici di Cagliari con funzioni di conservatore; insegna Fenomenologia delle Arti Contemporanee allo IED di Cagliari. Da gennaio 2018 è direttore artistico della Fondazione MACC di Calasetta (SU).

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