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Giuseppe Gabellone porta nel Monferrato un gioco di luci e penombre
Arte contemporanea
Una copertura lignea a doppio spiovente raccorda un ampio salone la cui planimetria rimanda alla forma della lettera L. Lo spazio è asciutto e austero, dominato dalla penombra. Nel segmento più corto, quello che ci accoglie, sono alloggiate due piccole stanze vetrate simili ai cubicoli che spesso caratterizzano le officine o i laboratori artigiani. Verosimilmente, si tratta di un’addizione successiva alla costruzione dell’edificio originale.

Superata la soglia della prima stanza, lo sguardo incontra l’immagine di un foro circolare, o meglio di una cavità. A circoscrivere il vuoto è una forma familiare ma di difficile collocazione, simmetrica solo lungo l’asse orizzontale. La tattilità del materiale rossiccio e apparentemente poroso lascia presagire che sia un guscio in terracotta. Pur non avendo ancora intuito che si tratta di una testa, è impossibile resistere a quella sensazione di spaesamento percettivo che le opere di Giuseppe Gabellone (Brindisi, 1973) sanno trasmettere. Testa capovolta (2024) è una scultura costretta entro il vincolo della bidimensione, inscatolata e appiattita dal gesto fotografico: un piccolo inganno visivo, un invito a raccogliere indizi e prove per visualizzare l’oggetto – o il soggetto – da un punto di vista inedito.

Appese alle pareti circostanti sono delle piccole fusioni in stagno, bassorilievi autonomi o forse tessere di un insieme più grande e misterioso (Senza titolo, 2025). Sulla loro superficie, la danza precaria della luce potrebbe costituire un invito al visitatore più incurante delle regole ad allungare la mano per sondarne la pelle metallica.
Domina la stanza adiacente un grande bassorilievo color avorio (Senza titolo, 2024) parte della serie False finestre. L’opera sfonda la parete e invita lo sguardo a sondare un paesaggio indefinito, dove le forme sembrano subire, pur nella loro fissità, l’inerzia di un’instancabile ridefinizione gestuale.
Una volta usciti e girato l’angolo si è accolti dalla porzione più ampia dello spazio, definita da grandi costolature che, con l’aiuto di alti pilastri in cemento armato, disegnano una struttura voltata dall’aria nostalgicamente severa. La luce è bassa e calda e sembra essere diffusa, di comune accordo, da due diverse sorgenti. Un proiettore motorizzato apre come per magia una nuova finestra nello spazio altrimenti opaco: la grande parete sinistra è invasa da una forma quadrangolare luminosa che accende la sala di un giallo solare (Tramonto scivola, 2025). Contemporaneamente, il vetro riflettente di Fiore (2011), una serigrafia insolitamente installata in posizione orizzontale e di poco elevata rispetto al pavimento, si incendia e diventa a sua volta fonte luminosa. E mentre la vista ancora fatica ad acclimatarsi a questo insolito ambiente luminoso, coni e bastoncelli sono chiamati ad adattarsi nuovamente, mentre la proiezione si riduce di dimensione a velocità appena percettibile. Il grande quadrato, come costretto da una saracinesca montata al contrario, si assottiglia e si comprime verso l’alto in forma di rettangolo sempre più sottile fino a scomparire, salvo poi riaffacciarsi nuovamente nell’angolo in alto a sinistra per ricominciare a estendersi in diagonale sulla parete, progressivamente, fino a riempirla.

Un occhio attento non mancherà di notare che, alloggiata dall’altro lato di una quinta vetrata che impedisce al visitatore di osservarla da vicino, è alloggiata una lampada in acciaio a forma di T, adornata da una processione ordinata di lampadine e sorretta da un treppiede. Chi invece non avesse avuto modo di notarla, verrà richiamato dallo scatto improvviso di un interruttore e da un nuovo impulso luminoso: Senza titolo (2018) si accende per dodici secondi e poi ripiomba nel buio, dormiente, per nove lunghi minuti. La coreografia luminosa che scaturisce dall’interazione di questa opera con le sue compagne è un invito dell’artista all’esercizio della contemplazione e dell’immersione completa nello spazio espositivo, dove i confini tra installazione, opera e visitatore si perdono – complice la densa incorporeità della luce e quello stesso senso di incertezza percettiva che è cifra della poetica di Gabellone.

A ospitare questo piccolo microcosmo è la cittadina di Canelli (AT), nel cuore del Monferrato, all’interno degli spazi che dal secondo Dopoguerra agli anni Ottanta hanno ospitato gli uffici e la linea produttiva dell’azienda spumantiera Bosca. Più precisamente, ci troviamo nell’ala destra di una villa Liberty parzialmente dismessa, che a partire dallo scorso settembre ha ripreso vita grazie a PALAZZOIRREALE, iniziativa votata alla valorizzazione delle arti nella cornice del territorio monferrato. A cura di Giorgio Galotti, questo appuntamento espositivo, commissionato a Giuseppe Gabellone, arriva dopo quello inaugurale, che lo scorso settembre ha visto come protagonista Patrick Tuttofuoco (Milano, 1974).

PALAZZOIRREALE nasce per volontà di Polina Bosca, alla guida dell’azienda familiare insieme ai fratelli Pia e Gigi, in occasione delle celebrazioni di un importante anniversario: il decimo dal riconoscimento UNESCO che ha consacrato le Cantine Cattedrali Sotterranee – cantine voltate in laterizio tipiche di questa regione – Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Il progetto espositivo si inserisce infatti in un più ampio percorso di recupero dell’architettura industriale della palazzina e delle cantine annesse, con l’obiettivo di arricchire ulteriormente l’esperienza di visita del sito UNESCO, soprattutto mediante la commissione di progetti site-specific.

In questa cornice, il percorso espositivo si amplia e le cantine della villa di via Luigi Bosca 2 aprono per la prima volta le porte ai visitatori, accogliendo negli spazi sotterranei la scultura Senza titolo (2018), gemella eterozigote della lampada sita al piano superiore. Costituita da un unico braccio metallico anziché dall’intersezione di due segmenti, questa irradia lo spazio e vive in relazione osmotica con esso, alterandone la percezione e assorbendone al contempo l’atmosfera e la stratificazione di tutte le storie che vi si sono consumate. Ne è una testimonianza concreta la mutazione dell’acciaio crudo che ne costituisce l’ossatura, la cui superficie, esposta all’umidità delle cantine, ha immediatamente intrapreso un graduale ma inesorabile processo di trasformazione elettrochimica.
Chiamati ancora una volta a individuare il giusto equilibrio tra buio e luce, gli occhi dell’osservatore non trovano riposo, costantemente impegnati a sondare e rinegoziare la percezione di ciò che comanda la loro attenzione. E mentre l’olfatto recepisce le molecole organiche delle gallerie sotterranee abitate per lungo tempo dalla fermentazione delle uve e la pelle reagisce indispettita all’escursione termica, non resta che gettare un ultimo sguardo trasognato all’ambiente e dirigersi nuovamente verso le scale, destinati a rompere l’incanto una volta tornati a contatto con la luce naturale.