16 dicembre 2022

I Martedì Critici con Nicola Samorì. Un camaleonte della forma

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"M’impongo la statura del camaleonte rispetto alle forme": Nicola Samorì, intervistato da Alberto Dambruoso e Davide Ferri, protagonista dell’ultimo appuntamento dell’anno dei Martedì Critici

Nicola Samorì. Ph. Michela Ravaglia

Superati i 300 artisti intervistati in 12 anni, non poteva che cadere il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, il dodicesimo e ultimo appuntamento 2022 dei Martedì Critici di Alberto Dambruoso che ha visto come protagonista dell’incontro l’artista di rilievo Nicola Samorì (Forlì, 1977). Il dialogo è stato accompagnato dalle domande e le osservazioni del critico d’arte e curatore indipendente Davide Ferri. Conterraneo di Samorì e suo esitante e muto osservatore da decenni, fino alla recente accoglienza incondizionata dei dipinti e delle pietre emiliane.

Il dibattito, nell’ambito della facoltà di Architettura della Sapienza a Valle Giulia, a due passi dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, ha preso la forma dell’iter a ritroso, anzitutto, nelle parole di Dambruoso, che ha ripercorso per il pubblico solo alcuni degli approdi espositivi dell’artista in Italia e all’estero; tra le mostre presso Monitor, la galleria romana che rappresenta Samorì, presieduta da Paola Capata, la personale a Taiwan del 2019, quelle di Stettino, Cracovia, Kiev, Berlino, quella al Mart di Trento e a Palazzo Fava a Bologna, a Villa d’Este e al Mam’s di Sassoferrato, senza dimenticare la partecipazione a due biennali di Venezia.

Si è voluto mettere in luce come Samorì, artista contemporaneo, non adotti quelli che sono gli invitanti medium cui spesso attinge la contemporaneità, come video e fotografia, ma prediliga, nella sua pur incasellabile unicità, i medium classici di scultura e pittura.

Samorì fu pittore già all’età di quindici anni e scultore da ancor prima, quando la parola quasi non aveva fatto il suo ingresso. Attento e paziente studioso dell’antico egli staziona fra il tardo Rinascimento e il Barocco “laddove – ha sottolineato Dambruoso – la pittura si fa carne”.

Ma non sono solo i maestri del passato più remoto come Giuseppe Maria Crespi, José de Ribera o Rembrandt ad interessare l’occhio anatomico di Samorì, che ritrova una familiarità anche nello spazialismo di Fontana, nella matericità di Burri, nel trattamento del marmo ad opera di Wildt.

Dambruoso coglie nella sofferenza dei corpi di Samorì, nei suoi santi e martiri quel senso del tragico che da Masaccio corre al presente per vie traverse, fino a toccare Kunellis e «L’ineluttabilità di cui è intriso». C’è molto da vagliare per potersi avvicinare all’opera dell’artista che non prescinde dal tema del tempo. Molte pitture ad olio asciugheranno in un futuro indefinito. Tutto quello che faccio nel mio lavoro è un calendario dell’esistenza. C’è una clessidra in costante moto. Però c’è anche una rivincita in atto: la capacità di perpetuare la nostra immagine attraverso l’arte». C’è poi il tema di Eros e Thanatos, c’è la messa in crisi della forma.

Quando Ferri ha menzionato la sua visita allo studio di Samorì calato nella foschia del settentrione, «In un territorio che sa di palude», l’artista ha replicato con una riflessione su ciò che la nebbia impone: la necessità di una messa a fuoco. Di qui una prima dualità viene rivelata: «Tutto quello che faccio si muove in un campo di battaglia tra l’analisi dettagliata e il dissolvimento». E, a questa rivelazione, si aggiunge che il paesaggio d’intorno, con i suoi riti contadini, anche i più selvaggi – pavesiani, se vogliamo – come l’uccisione del maiale o la scuoiatura del coniglio, hanno ricoperto un ruolo fondamentale: «Si tratta di traumi ottici che mi hanno portato alla curiosità di sollevare la pelle delle cose. La mia arte è cresciuta su stessa assorbendo ciò che mi accadeva di giorno in giorno».

La folgorazione di Samorì, giunta vent’anni dopo la lettura dell’Ignoranza fluida di Mattia Moreni risponde alla domanda ferriana sugli artisti che lo hanno accompagnato e ispirato. «Ho scoperto in Moreni prima l’autore e il pensatore, poi l’artista. Si tratta di un maestro che ha saputo dire molto della nostra terra mediante un linguaggio che poi è migrato anche in altri». Da lui l’idea di rompere un piano, di soffermarsi su ciò che accade ad un dipinto di profilo, di scoprire quali siano i confini di un quadro per testarne (o forzarne?) la consistenza. Qualcosa che richiama nuovamente l’attenzione ai tagli di Fontana e porta all’interrogativo senza risposta: «Nei suoi ritorni la ferita è reale o immaginaria? Credo che abbia a che fare con un senso di inaccettabilità del piano».

La cura maniacale di Samorì per la figura e la sua successiva dissoluzione hanno generato in Dambruoso un dubbio rispetto al processo creativo che vi si cela.  «Penso di aver stabilito una sorta di vizio della forma che mi porta sempre ad andare da un’altra parte…», spiega l’artista nei cui lavori Ferri intravede l’ombra del virtuosismo. «M’impongo la statura del camaleonte rispetto alle forme. Il virtuosismo cade in trappola se non diventa qualcos’altro. Se non supera sé stesso. Se non c’è un guizzo in grado di rompere una temporalità confortevole nella quale per abitudine ci si potrebbe anche rifugiare, la prospettiva è una soltanto: la noia».

Ferri però corregge il tiro, riconoscendo nell’artista più che il virtuosismo, l’esuberanza ed anche una certa dose di sfrontatezza nell’affrontare la storia, nell’approcciarsi anche ad opere di grande o grandissimo formato. Una considerazione che ben si accompagna a quella di Dambruoso rispetto al pendolo tra l’eroico (il sacro) ed un gradiente di anti-eroicità (la mollezza scultorea) cui l’artista risponde come sempre in modo inaspettato: «C’è un limine inquieto tra il monumento e l’anti-monumento e la scultura vi oscilla, stando in bilico sul basamento che conta più della scultura stessa».

E dal monumento si passa poi al linguaggio muto, al rapporto corpo a corpo con la materia dell’arte, di cui Samorì racconta a partire dalla discrezione che gli è propria per natura. Un discorso meta-artistico può comportare un freno. Condurre all’afasia, alla paralisi. La chiave di ogni suo gesto è la lentezza, la pazienza. «Non mi sono mai posto alcuni interrogativi. Altrimenti diventa faticoso». Il desiderio resta quello di non rinunciare “alla dimensione sensuale, di piacere della pittura”, una dimensione puramente erotica nella quale la parola è frequentata poco e a tratti per nulla.

Ferri rintraccia nel percorso dell’artista un passaggio importante a partire dalla seconda mostra tenutasi da Monitor nel 2021, “Roma (manuale della mollezza e la tecnica dell’eclisse)”. Ossia il superamento dell’idea di costruzione e decostruzione. Un rilievo rispetto al quale l’artista risponde di essere «Testimone poco attendibile perché sono dentro le cose. Alle spalle ho tutti questi automatismi e quindi posso liberarmene. Ciascuno viene da un preesistente. Sono forme e attitudini che ho continuato ad allevare costantemente. Sono incline, senza quasi rendermene conto, a spostare l’immagine al centro della scena e attribuirgli uno stato di pericolo. Mi diverte uscire dalla cornice del preesistente: è importante che l’energia sia mossa costantemente».

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