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In ricordo di Dara Birnbaum: remixare l’immagine per rompere lo schermo del potere
Arte contemporanea
di redazione
Figura radicale dell’arte contemporanea, pioniera nella rivoluzione che ha investito il linguaggio dei media negli ultimi decenni, Dara Birnbaum è morta il 2 maggio 2025, all’età di 78 anni. La sua ricerca ha segnato un punto di non ritorno nell’analisi visiva del potere mediatico, anticipando di decenni le riflessioni sulla cultura digitale e sulla performatività dell’identità attraverso la ripetizione delle immagini. Nata nel 1946 a New York e rappresentata da lungo tempo dalla Marian Goodman Gallery, la sua arte è spesso stata riconosciuta più all’estero che negli Stati Uniti: retrospettive in Belgio e Portogallo hanno preceduto quella tardiva ma importante del 2022 all’Hessel Museum of Art del Bard College. Nel 2023, a Milano, Fondazione Prada, nel suo spazio Osservatorio, presentò la prima monografica italiana, a cura di Barbara London con Valentino Catricalà ed Eva Fabbris.
Technology/Transformation: Wonder Woman
Negli anni Settanta, in un’epoca in cui la televisione era ancora considerata un dispositivo neutro di intrattenimento familiare, Birnbaum ne smascherava le strutture retoriche e patriarcali attraverso un gesto tanto semplice quanto rivoluzionario: remixare. Ritagliava, ri-montava, accelerava e bloccava la narrazione televisiva, forzandone i codici fino a rivelarne il sottotesto ideologico. Le sue opere volevano aprire «Ferite nel tessuto mediale», come lei stessa le definiva: uno spazio di riflessione strappato via alla passività dello spettatore.
La sua opera più celebre, Technology/Transformation: Wonder Woman (1978–79), è oggi una pietra miliare nella storia dell’arte femminista e del video come linguaggio. In un vortice di loop ipnotici, Dara Birnbaum decostruisce la figura dell’eroina televisiva interpretata da Lynda Carter, trasformando i suoi gesti – la rotazione su se stessa, la corsa, l’atto di tagliare uno specchio con un’unghia – in coreografie ambigue. Non è liberazione, sembra dire Birnbaum, se il potere che ci viene proposto è solo l’ennesimo travestimento di un modello maschile.
«La narrazione abbreviata — correre, girare su sé stessa, salvare un uomo — consente al tema sottostante di emergere: trasformazione psicologica contro prodotto televisivo. Il reale diventa Wonder per “fare del bene” (essere morale) in una società (a)morale o (im)morale», così Birnbaum parlava della sua opera.

Dara Birnbaum: una tensione politica senza compromessi
Formatasi come architetta, con studi al San Francisco Art Institute, Birnbaum approda all’arte video quasi per caso, dopo aver assistito in una galleria a una proiezione di Allan Kaprow. Da quel momento inizia una riflessione senza compromessi sul rapporto tra visione, genere e potere, nutrita di teoria femminista, dei testi della rivista October e di una pratica serrata con le tecnologie allora emergenti.
Nei suoi primi lavori, come Attack Piece (1975), l’artista mette in scena se stessa come soggetto osservato e osservante, in un dialogo visivo con le teorie sullo “sguardo maschile” formulate da Laura Mulvey. I suoi lavori successivi, spesso costruiti a partire da registrazioni televisive ottenute illegalmente, prendono di mira i programmi di intrattenimento di massa – da Kojak a Laverne & Shirley – destrutturandone le logiche narrative e sonore fino a restituire il vuoto ideologico su cui poggiavano.

Nella New York post-punk degli anni ’80, Birnbaum presenta i suoi lavori non nelle gallerie ma nei club e nei saloni di bellezza, forzando la soglia tra cultura alta e bassa. Eppure la sua arte, in apparenza effimera, conquista gradualmente la legittimazione istituzionale: espone a Documenta 7 (1982), realizza una delle prime video wall negli Stati Uniti nel 1989 in un centro commerciale di Atlanta, e approda persino su MTV.
Negli anni ’90 e 2000, la sua produzione si confronta sempre più con la memoria mediatica e le lacune dell’archivio globale. Opere come Tiananmen Square: Break-In Transmission (1990) o Arabesque (2011) evidenziano i buchi, le omissioni, le voci sommerse del racconto dominante. In quest’ultima, accosta video di pianiste dilettanti da YouTube a spezzoni di Song of Love (1947), spostando il fuoco dalla figura ingombrante di Robert Schumann a quella misconosciuta di Clara.

Alla fine della sua carriera, Birnbaum non ha mai abbandonato la tensione politica e critica che ha animato la sua opera. In una lezione del 2020, ribadiva l’urgenza di «Fermare il tempo, rallentare e fissare lo sguardo su ciò che conta davvero». Un messaggio che oggi, nella giungla dell’informazione istantanea, suona più attuale che mai.