22 settembre 2019

La Biennale di Lione. Dove le acque si confondono

di

Sette curatori per 55 artisti alla Biennale d'Arte Contemporanea di Lione. Una manifestazione che supera la prova della complessità delle creazioni in situ e guarda alle società attuali

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Stéphane Thidet, Le silence d’une dune, 2019. Courtesy de l’artiste et [of the artist and] Galerie Aline Vidal, Paris ; Galerie Laurence Bernard, Genève. © Adagp, Paris, 2019. Photo : Blaise Adilon

Una moltitudine di creazioni a tutto campo restituiscono paesaggi metamorfici separati da inverosimili giochi di atmosfere. Dove siamo?

In un luogo privilegiato della creazione contemporanea emergente e non solo, siamo Là où les eaux se mêlent, titolo della 15esima edizione della Biennale d’Arte Contemporanea di Lione.

Ispirandosi a un grande poema di Raymond Carver, che in italiano dà Dove l’acqua con altra acqua si confonde, si guarda qui al concetto sociopolitico ed economico di fluidità, di trasformazione e di scambio, con un clin d’oeil alla confluenza tra i fiumi Saona e Rodano, a Lione.

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Nico Vascellari, Horse Power (détail), 2019. Courtesy de l’artiste (of the artist). © Blaise Adilon

Una manifestazione diffusa che si espande a macchia d’olio anche nel territorio metropolitano e che invita lo spettatore a prendere parte a un viaggio fisico, spirituale e magicamente visivo, attraverso un ecosistema sostenibile dell’arte.

Venuti direttamente dal Palais de Tokyo di Parigi, i curatori Vittoria Matarrese, Daria de Beauvais, Yoann Gourmel, Hugo Vitrani, Claire Moulène, Adélaïde Blanc e Matthieu Lelièvre hanno viaggiato da Lione, a Parigi, passando per Roma, Oslo, Mosca, Kostërrc, Brooklyn, Buenos Aires, Johannesburg, Bangkok, per incontrare 55 artisti di generazioni e nazionalità diverse.

In una distribuzione paritaria tra donne e uomini, gli artisti sono stati invitati a progettare lavori in situ, che formano il 90 per cento delle opere in biennale.

I progetti si dislocano tra l’ex fabbrica Fagor-Brandt e il museo d’Arte Contemporanea, e guardano alle società attuali e alle problematiche politico-sociali, ma anche alla storia e all’architettura dei luoghi e al contesto socioeconomico in cui si iscrivono. La neo direttrice artistica della biennale, Isabelle Bertolotti, sostiene la produzione ma anche il dialogo tra culture e vedute diverse, in due parole: l’originalità dell’opera.

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Bianca Bondi, The sacred spring and necessary reservoirs, 2019. Courtesy de l’artiste et [of the artist and] VNH Gallery, Paris ; Galería José de la Fuente, Santander. © Adagp, Paris, 2019. Photo : Blaise Adilon

Le sue linee guida puntano sulla diversificazione delle pratiche artistiche, una porosità dei campi di espressione, la creazione di spazi di incontro, di scambio e di mediazione, senza però perdere mai di vista le preoccupazioni locali e internazionali. Ripercorrendo le edizioni passate non si può non menzionare Thierry Raspail cofondatore e direttore artistico fino al 2018, mentre tra i curatori invitati troviamo Emma Lavigne, oggi a capo del Palais de Tokyo, che con Mondes Flottants nel 2017 ha accolto ben 263mila visitatori. In breve, un vero successo. Ralph Rugoff nel 2015, Hou Hanru nel 2009, Nicolas Bourriaud e Jérôme Sans nel 2005, in passato co-direttori del Palais de Tokyo, Harald Szeemann nel 1997 o Jean-Hubert Martin nel 2000. Ricordiamo che quest’ultimo ha curato, nel 1989 per il Centre Georges Pompidou, la mostra Les magiciens de la terre – oggi un importante riferimento in tema di presentazione di arte non occidentale. L’attuale team curatoriale ha dimostrato modalità organizzative e progettuali atte a superare le sfide poste sia dalla complessità delle creazioni in situ – appoggiate fra l’altro da aziende locali – che dallo spazio senza pareti, delimitato solo da una segnaletica industriale. Al di là delle preferenze personali, la squadra rivendica tutti gli artisti presentati, votati magari non tutti all’unanimità ma alla maggioranza. Come si sceglie un curatore e perché? Ce lo dice Isabelle Bertolotti. «Scegliamo un curatore perché lo conosciamo, sappiamo come la pensa. Ogni curatore è poi diverso dall’altro. Emma Lavigne per esempio ha portato opere di collezioni pubbliche e private, con qualche creazione nuova, ma molte meno rispetto all’edizione attuale. Il filo conduttore? Aiutare e mostrare creazioni nuove. Thierry Raspail era direttore del museo d’Arte Contemporanea di Lione – anch’io vengo da lì – dove si è da sempre sostenuta la produzione artistica. Qui alla biennale abbiamo pochi artisti supportati dalle gallerie, contrariamente ad altre biennali. Siamo autonomi, indipendenti rispetto al mercato dell’arte». Torniamo alla mostra, che occupa per la prima volta l’ex fabbrica di elettrodomestici Fagor-Brandt, chiusa nel 2015, e situata nel quartiere Gerland, nel cuore di Lione. Si tratta di un sito eccezionale che si estende per 29mila metri quadrati, e che ha dato la possibilità agli artisti di lavorare come in un immenso atelier. La creazione contemporanea investe così una vecchia industria del tutto spoglia che lascia dialogare le opere tra loro e con le strutture architettoniche verticali e orizzontali, colonne e  travi, come accade in Elastic Bonding (2019) di Malin Bülow.

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Fernando Palma Rodríguez, Tetzahuitl, 2019. Courtesy de l’artiste et [of the artist and] House of Gaga, Mexico/Los Angeles. © Blaise Adilon\n\nEn arrière plan : Malin Bülow, Elastic Bonding, 2019. Courtesy de l’artiste [of the artist]. © Blaise Adilon

Qui il corpo dei danzatori è inglobato, a mo’ di seconda pelle, in un tessuto elastico che scende giù dall’alto – attraverso movimenti restrittivi, l’agilità delle loro membra si misura con la rigidità dell’edificio che li circonda. Non si tratta quindi di una fabbrica dismessa che serve unicamente da contenitore ma di un corpo architettonico che gioca un ruolo determinante nella concezione e nella fruibilità delle opere. Non solo archeologia post-industriale, dunque. Yona Lee presenta In Transit (highway), un’installazione piazzata molto in alto di uno dei quattro magazzini, e accessibile tramite una scala a chiocciola – una vera sfida per chi soffre di vertigini. L’artista sudcoreana ha ideato una sorta di labirinto lineare con tubi in acciaio inossidabile, che accolgono oggetti quotidiani urbani e domestici. Taus Makhacheva ha invece collaborato attivamente con 150 persone del posto per realizzare Aerostatic Experience, una mongolfiera in tessuto bianco di cotone, sulle tracce della lionese Le Flesselles del 1784. L’artista russa si è ispirata ai metodi di insegnamento del costume del liceo La Martiniere Diderot, guardando anche alle tecniche e ai materiali di epoche diverse come la crinolina – metafora per l’artista di costrizione e di protezione al contempo. Il macLyon accoglie otto artisti tra cui troviamo, al secondo e terzo piano, il duo Daniel Dewar & Grégory Gicquel con Mammalian Fantasies. Si tratta di una serie di sculture lignee di corpi frammentati di umani e altri mammiferi, che non poggiano su un piedistallo ma sono montati su mobili diversi, con risultati a volte divertenti, si va da un cassettone con conigli alle ante di un armadio con interiora umane. Si passa dal monocromo al policromo con Renée Levi che, al primo piano, trasforma pareti a colpi di pennello e spray, per restituirci un’opera astratta e immersiva, tra colore, luce e superficie. Petrit Halilaj, Jean-Marie Appriou, Thomas Feuerstein, Abraham Poincheval, Nico Vascellari e Pannaphan Yodmanee e tanti altri artisti da scoprire fino al 5 gennaio, in questa biennale magica e alchemica, fresca e sorprendente, che offre uno sguardo largo e variegato sulla creazione emergente e internazionale.

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