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La ceramica è la sintesi. Parola di Picasso
Arte contemporanea
Sono chiassosi, kitsch e un po’ decadenti, gli oggetti in ceramica – lussuosi antesignani dei souvenir della società di massa – che venivano prodotti dalla prima fornace (1871-1889) nel quartiere Saint-Michel di Monte-Carlo. Fu Marie Blanc – moglie di François Blanc, fondatore del Casinò e della “Société des Bains de Mer” monegasca, nonché proprietaria di Villa Sauber – a voler creare una tradizione ceramica locale allo scopo di presentare e promuovere il Principato di Monaco all’Esposizione Universale di Vienna del 1873. Comincia così, con un nutrito nucleo di opere, la mostra “Artificies Instable”, curata da Cristiano Raimondi nella stessa Villa Sauber a Monte-Carlo. Una collettiva trasversale che accosta undici artisti internazionali di diverse generazioni e provenienza. La struttura del museo, un edificio color cipria decorato come una torta alla panna, è una Wunderkammer dalla quale emergono storie sorprendenti. La stanza dedicata a Picasso è essenziale nella sua assoluta modernità. Tra le ceramiche esposte vi sono due piatti: uno con una sardina e una fetta di limone, l’altro con un mare dipinto e una mano tridimensionale, simile a una piovra, che sembra modellare il piatto stesso. Bernard Ruiz Picasso, nipote del maestro, racconta come suo nonno, nel 1946, si innamorò della ceramica. “La ceramica è un modo per unire la pittura, il disegno e la scultura. È la sintesi. L’inventività che procura la ceramica è magica, quando cuoci la terra non sai esattamente cosa ne verrà fuori, mentre dipingendo vedi subito il risultato”. Quando il maestro si presentò all’atelier Madoura a Vallauris, vicino Cannes, fu folgorato. Imparò la lavorazione e, a sua volta, insegnò a Suzanne e Georges Ramié, i proprietari della fornace, come trasformare un oggetto d’uso in donna, animale, personaggio mitologico senza fronzoli e vacue decorazioni.

I vasi di George Ohr (1857-1918), autodefinitosi “ceramista pazzo”, raccontano anch’essi una storia di modernità. Di origine alsaziana, l’uomo dai larghi baffi, viveva a Biloxi (Mississippi) e all’ingresso del suo laboratorio c’era un cartello che recitava più o meno: “Ohr il più straordinario ceramista del mondo”. Di sé diceva di essere un errore e del suo lavoro affermava che sarebbe stato apprezzato solo dopo la sua morte. E così fu. Non riusciva a vendere perché sparava prezzi esorbitanti e non veniva preso troppo sul serio. Le sue ceramiche, che anticipano i colori matissiani, sono tutte diverse tra loro, modellate a mano, semplicissime o kitsch con, alle volte, evidenti riferimenti sessuali. Fu nel 1968 che un antiquario scoprì settemila pezzi di ceramica stivati in un magazzino dietro la pompa di benzina dei figli. Da quel momento Ohr fu riconosciuto come il più importante ceramista americano dell’epoca. Andy Warhol e Jasper Johns collezionarono i suoi vasi e Johns li inserì addirittura in alcune opere. Frank Gehry, divenuto il suo maggior collezionista, gli ha costruito un museo a Biloxi.

In epoca più recente, il monegasco Albert Diato (1927-1985) inizia la carriera di scrittore. Nel 1946 si reca a Vallauris a intervistare Picasso e a sua volta è colto da un coup de foudre. Tornato a Parigi, molla le lettere e inizia i suoi primi esperimenti. Studia ceramica in varie parti del mondo, a Faenza incontra Lucio Fontana che lo aiuta a esporre. Diventa un ceramista nomade, fonda scuole e produce un’immensa quantità di opere. I suoi oggetti sono sessualizzati, unici e ironici, e si alternano tra buffi personaggi, bestie primitive e scherzi. Il tour della ceramica continua con Johan Creten, Simone Fattal, Ron Nagle e Magdalena Suarez Frimkess. Spazia poi da Eugene Baudin (1853-1918), che sondava l’idea del fondo marino come unico luogo sconosciuto agli umani, a Brian Rochefort (1985) che realizza sculture folli, fortemente cromatiche e spugnose da sembrare organiche, molli e bavose. Queste opere, così tattili, sono frutto dell’osservazione maniacale dei tuberi amazzonici e dei muschi di un mondo interstiziale, tra i regni non-umani e la profondità dell’iperspazio.

Aaron Angell (1987) – che ha fondato a Londra la “Troy Town Art Pottery”, una factory collettiva dedicata alla ceramica radicale e psichedelica – concepisce le opere come dei compost. Le sue ceramiche grigio-verdi si nutrono di poesia, design, pornografia, cultura beat e break news. A Fine percorso, troviamo i vasi silenziosi di Chiara Camoni, realizzati in una residenza artistica a Montelupo, luogo di “terra arida e gente dura”. Ogni singola opera è un’entità, uno spiritello, un individuo a due facce e crea un ambiente fuori dal tempo ma concreto. La ceramica, nell’era del Mac, è per Camoni una scelta politica. Il pregio della mostra è il racconto di storie indedite dietro un’arte antichissima, considerata secondaria, che in tempi di virtualità segna una rara possibilità di contatto con la terra e la bellezza.
mostre ed eventi

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