06 giugno 2021

La trasgressione come prassi. Intervista a Marie de Brugerolle

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Due mostre dedicate a due artisti molto diversi al CRAC di Sète, nel sud della Francia, aprono il sipario all'interpretazione della contaminazione che oggi è legge. E di una imposta flessibilità progettuale

CRAC, dettaglio della mostra di Than Hussein Clark

“Reverse Universe” titolo quanto mai attuale, dà il via a due mostre imperdibili: “Sur terre et sur mer avec le Codex Seraphinianus” di Luigi Serafini (1949, Roma) e “A Little Night Music (And Reversals)” di Than Hussein Clark (1981, Exeter, New Hampshire), accolte al Centre Régional d’Art Contemporain Occitanie di Sète (CRAC), nel sud della Francia. Video, scultura, fotografia, dipinti e installazioni si dislocano lungo un percorso che si separa in due mostre distinte che affrontano “la questione dell’ibridazione di corpi e di forme, così come il passaggio delle frontiere, la loro trasgressione fisica, geografica, linguistica o culturale”, sottolinea Marie de Brugerolle, la curatrice. Le opere rivelano un universo mutevole in cui si mette costantemente in questione l’idea di “normalità”, un inno alla diversità e alla trasformazione come paradigma dell’umanità. Vedi Genesis (2019, olio su tela), per un’immersione nel mondo organico e ricco di sottigliezze di Serafini, o Banquo (installazione, 2020) di Hussein Clark, che diffonde il profumo Divine, un invito a viaggiare nell’universo di Notre-Dame des Fleurs (1943), romanzo di Jean Genet. Luigi Serafini espone qui venti tavole del Codex Seraphinianus, realizzato tra il 1976 e il 1979, pubblicato nel 1981 da Franco Maria Ricci, e ristampato diverse volte; tra cui con la prefazione di Italo Calvino, per l’edizione del 1984. Esposto per la prima volta in tre dimensioni, il Codex è un’incredibile enciclopedia surrealista, illustrata con un alfabeto inventato cioè “una scrittura che contiene il sogno di altre scritture” così la descrive il suo creatore, Grande Satrapo del Collegio della Patafisica dal 2016. Il percorso inizia con le origini della vita incarnate dal Demi-thon (2007), il mezzo tonno che ricorre nel bestiario serafiniano e “che ha la particolarità di tagliarsi in due quando attraversa lo Stretto di Gibilterra per ricostituirsi in primavera e riprodursi”, sottolinea l’artista. Si chiude con Perséphone C (installazione, 2005), la donna-carota che rimanda alla figlia di Demetra e all’alternanza delle stagioni. Ricordiamo che Serafini ha collaborato con artisti come Fellini per il quale ha realizzato la locandina del film La Voce della Luna (1990). Than Hussein Clark presenta una mostra intercalata dai poemi di James Loop o da film come Casablanca (1942), per parlarci dell’eccezionale scena artistica e cosmopolita di Tangeri che nel ventesimo secolo ha visto soggiornare personalità come William S. Burroughs, Jean Genet, Paul Bowles, Yves Saint Laurent, o la ricca filantropa Barbara Hutton. Quest’ultima è rappresentata nell’opera Ms. Hutton or The Wilted Tulip (2020), da un manichino sui generis che saluta dall’alto di una passerella di imbarco; un clin d’œil al capriccioso desiderio dell’americana che aveva deciso di non toccare più il suolo. Un’ampia sala accoglie diversi scritti del 1971 che evocano la libertà sessuale, come il noto Manifeste des 343 pubblicato da L’Obs, a favore della legalizzazione dell’aborto in Francia. Le questioni di genere, etnia, classe e sessualità, scandiscono l’opera di Hussein Clark come i 365 orologi in A year in the international zone. Raccolti a Tangeri, ognuno simboleggia un giorno dell’anno 1956, che segna l’indipendenza del Marocco e la fine di Tangeri come zona internazionale, amministrata dagli Stati Uniti e da diversi paesi europei.
Questo percorso porta tuttavia le impronte di un allestimento atipico. Progettare una mostra oggi, è un vero rompicapo. Sotto accusa la crisi sanitaria che sta mettendo a dura prova la curatela che vive, nel bene e nel male, in continua sperimentazione. Percorsi espositivi che devono rispettare rigide misure di sicurezza o date di apertura al pubblico sempre incerte, sono norme non facili da sormontare. Marie de Brugerolle, storica dell’arte e insegnante all’Ecole Nationale des Beaux Arts di Lione, che ha collaborato con il Centre Pompidou di Parigi, il MOMA di New York, il Mamco di Ginevra o la Tate Modern di Londra, ci dice la sua sull’allestimento di questo progetto imponente.

Luigi Serafini, Le retour de la Grande Tortue, olio su tela, 2017, Courtesy dell’artista

Come nasce “Reverse Universe”?
«Il progetto nasce da una riflessione sull’attuale ascesa dei fascismi e sull’oscillazione dei confini tra i Paesi, tra i medium, e sull’idea del post-medium. È una riflessione che abbiamo avuto separatamente io, Luigi e Thomas, così quando ci siamo incontrati abbiamo deciso di fare qualcosa insieme. Da tempo volevo fare una mostra a Sète, un crocevia di culture mediterranee».

“Reverse Universe” presenta due artisti molto diversi tra loro. Non è così?
«Sono due mostre speculari, e sono due artisti che spingono il limite del sistema dell’arte, ne scombinano i punti di riferimento. Inoltre, le loro opere sono strutturalmente ben costruite dal punto di vista storico, perché si basano su ricerche molto approfondite».

Lo stretto di Gibilterra, che rinvia al mito greco delle Colonne d’Ercole e al limite del mondo conosciuto, è presente sia in Hussein Clark con Tangeri e il suo porto che si apre sullo stretto, sia in Serafini con il mezzo tonno che lo attraversa. È un altro punto in comune?
«Direi di sì. Rinvia anche al colonialismo. Than presenta qui dei quadri in chintz che rimandano alla storia coloniale. L’idea di metamorfosi, del fatto che siamo degli esseri ibridi e che non succede niente se non ci mescoliamo. Penso ai due lati del mediterraneo, alla questione di genere, all’identità sessuale, come a una porosità tra le categorie artistiche».

Than Hussein Clark, Chintz Panel Canvases, 2020

Il catalogo non è ancora stato pubblicato. Giusto?
«Il catalogo è cresciuto negli ultimi mesi, è andato oltre il libro per diventare una sorta di estensione della mostra. Saranno integrati diversi bozzetti e disegni di Luigi oltre alla documentazione che ha alimentato il lavoro di Than. Tra gli interventi ci sono quelli di Emanuele Coccia, Donatien Grau, Pascal Bonafoux, Catherine David, Paul Clinton o Dan Fox».

Un anno dal primo confinamento è un lasso di tempo sufficiente per tirare le somme. È stato difficile?
«Credo che essere una curatrice indipendente aiuti molto. Ho lavorato presso istituzioni come il Centre Pompidou o il Moma di New York e so che non c’è flessibilità. Ciò che è un difetto per me è diventata una qualità, nel senso che sono indipendente e dunque precaria, però più flessibile. Mi hanno cercata perché sanno che in tre settimane posso fare una mostra e che ho una capacità di adattamento costante».

La crisi sanitaria non l’ha fermata?
«Credo che essere una curatrice indipendente aiuti molto. Ho lavorato presso istituzioni come il Centre Pompidou o il Moma di New York e so che non c’è flessibilità. Ciò che è un difetto per me è diventata una qualità, nel senso che sono indipendente e dunque precaria, però più flessibile. Mi hanno cercata perché sanno che in tre settimane posso fare una mostra e che ho una capacità di adattamento costante».

Luigi Serafini, La dernière apparition du Poisson d’Avril, impression numérique sous plexiglass, 2001, Courtesy de l’artiste

Com’è andata nell’organizzazione di “Reverse Universe”?
«La mia grande preoccupazione era che dovevamo imporre un senso unico al percorso che sarebbe dovuto iniziare con Luigi e non con Than com’è stato successo poi; a sua volta la mostra di Than che doveva finire con Ms. Hutton, inizia con quest’opera. Non è tutto! Avrebbe dovuto essere una mostra estiva invece ha compiuto una rivoluzione completa, un anno intero. A causa del Covid19, Serafini non è venuto per il montaggio, mentre Than era presente quando in realtà avrebbe dovuto girare un film in Marocco, così ha presentato il suo percorso come un set cinematografico. Aperta a letture diverse, in questo percorso si ripete costantemente l’idea di un universo inverso. Siamo stati comunque superati dalla realtà stessa».

Qual è il messaggio?
«Quando monto un’esposizione mi metto sempre nei panni del visitatore. Non volevo dare una lezione, volevo far sognare, stimolare l’immaginario della gente affinché pensasse a ciò che vede. Lasciarsi confondere dalle immagini e dalle forme per chiedersi da dove provengono, per cercarne l’origine. Perché qualcuno va a Tangeri oggi? Qual è il ruolo di quella comunità che viveva là negli anni cinquanta».

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