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A Roma la Fondazione D’ARC avvia il programma di mostre temporanee. La prima è la personale di Lulù Nuti
Arte contemporanea
Tre corpi ci spinge a confrontarci con la materialità degli oggetti, con la loro spazialità e la loro temporalità. La personale dell’artista Lulù Nuti inaugura il programma di mostre temporanee alla Fondazione D’ARC, un percorso che si focalizzerà su artisti nazionali e internazionali invitati a Roma grazie alle residenze della Fondazione. Tre corpi, visitabile fino al 29 luglio, vede la scultura farsi organismo e memoria. A cura di Giuliana Benassi, la mostra si articola in un contesto urbano che ha già una sua voce personalissima: nel cuore della zona Tiburtina, la Fondazione nasce infatti da un intervento di recupero che intreccia archeologia antica, architettura industriale e pratiche artistiche del presente. In questo contesto così stratificato, le opere di Nuti non appaiono come una sezione estranea al corpo permanente della collezione e allo spazio stesso della Fondazione, ma vi entrano in dialogo e interagiscono contemporaneamente con le altre opere, con lo spazio fisico e anche con il visitatore, che diviene componente mai passiva dell’atto di fruizione artistica.

Corpi in tensione alla Fondazione D’Arc
Sono tre le opere portate in mostra, i Tre corpi. Tre grandi installazioni – due delle quali inedite – che creano un percorso fra la sala M, quella dedicata alle mostre temporanee, e le altre sale, che ospitano invece la collezione permanente. Le tre opere sono I Fruitori (2025), Hysteria (2025) e Inferiata (2021-2025). Il titolo stesso della mostra richiama alla mente un sistema estremamente “fisico”, all’interno del quale ogni presenza assume una sua matericità capace di modificare l’equilibrio di una delle presenze rispetto alle altre. Il titolo, però, rappresenta al contempo un manifesto: la scultura si fa corpo, presenza viva che entra in attrito con l’ambiente. Essa non è più oggetto, ma tensione invisibile tra gesto e struttura, tra materia e memoria. Le sculture non si limitano a occupare lo spazio, ma lo interrogano, lo assorbono, lo disturbano, ridisegnando la geografia percettiva dell’intera Fondazione.

Hysteria – snodo della mostra – è una grande scultura realizzata in tubolari di inox battuti in forgia come il ferro; si tratta di due archi che si intersecano, si sorreggono e si compenetrano nel loro punto più alto per mezzo di un incastro ad anello, elemento che ricorre nelle produzioni dell’artista e che si rifà alla tradizionale modalità di lavorazione dei metalli. Nuti, che utilizza qui per la prima volta l’inox, dà vita ad una struttura bipolare che alterna geometria e organicità. Le estremità si trasformano da cilindri affilati in elementi simili ad ali o foglie, come se la materia avesse subìto una metamorfosi. L’opera rappresenta un vero e proprio elemento rivelatore: si relaziona direttamente con il carroponte sospeso nello spazio – memoria industriale dello stabile – quasi puntando su di esso l’attenzione dell’osservatore, e allo stesso tempo sembra rielaborare lo spazio, abbracciandolo, avvolgendolo, tagliandolo e quasi misurandolo. Il riferimento dichiarato all’Arch of Hysteria di Louise Bourgeois – corpo contorto, fragile, accusato di devianza – conferisce al lavoro una tensione psichica e storica che si riverbera sulla sua massa metallica, esposta come un’emanazione di forza e vulnerabilità al contempo.

D’ARC, Roma. Realizzato con il sostegno tecnico di Jadran Stenico, ph. Eleonora Cerri
Pecorella
La relazione tra il fruitore e l’opera
I Fruitori, progetto sostenuto grazie al bando Lazio Contemporaneo 2022 e in collaborazione con DVI99 e Studio Ozono, si compone di cinque sculture in resina, realizzate per mezzo di un processo sperimentale di co-creazione: sono stati infatti i fruitori stessi dell’opera a contribuire alla sua determinazione fisica. I Fruitori nasce da un dialogo con la curatrice, Giuliana Benassi, in merito alla natura dell’arte in assenza di un pubblico che possa interagirvi: cosa succederebbe se uccelli e altri animali fossero fruitori e creatori di opere d’arte? Per tre giorni e tre notti, dopo una collaborazione con un ornitologo per capire come approcciarsi al meglio all’interazione con gli uccelli, cinque sculture composte da pane, semi, alga spirulina e altri materiali organici che hanno funto da collante, sono state collocate sull’Isola Tiberina. Le sculture riprendevano le forme archetipe della stessa città di Roma – un arco, una piramide, un rettangolo – e sono state esposte a ogni sorta di azione, della natura e degli animali. Successivamente, sono state calcate e colate in vetroresina grezza, con uno scheletro in ottone visibile.

Il pane raffermo, preso da alcuni forni di Centocelle e Torpignattara e altrimenti destinato al macero – come ci racconta l’artista – doveva inizialmente essere il cuore dell’opera definitiva, con una colata di bronzo da effettuare in studio sullo scheletro dei resti beccati dagli uccelli; l’artista ha però deciso, in corso d’opera, di restituire le forme delle opere in resina: «Immaginare cinque masse di pane in bronzo, in questo momento storico, per me era assolutamente anacronistico. Ogni materiale si porta appresso un immaginario e una simbologia», afferma Lulù Nuti. Si è scelto dunque di lasciare la resina grezza, senza filtri, rispecchiando fra l’altro il colore del Tevere e creando un ulteriore ponte di collegamento fra lo spazio di realizzazione vero e proprio dell’opera e quello di fruizione.

Ciascuna scultura è stata inoltre dotata di uno “sguardo” meccanico, ospitando al proprio interno una GoPro che ha registrato quanto accadeva nel contesto circostante. Le sculture finalizzate in vetroresina, pertanto, ospitano oggi alla Fondazione dei proiettori che ricostruiscono e proiettano le immagini di quanto accaduto sull’Isola, generando «un osservatorio sperimentale della fauna urbana». L’esposizione immette il visitatore in un’atmosfera quasi onirica, con delle proiezioni che appaiono sbiadite quasi come ricordi, come una visione. Anche la proiezione diviene materia, non più dispositivo ma parte integrante dello spazio e della scultura, e lo stesso visitatore della mostra diviene anch’egli fruitore, interagisce con i video – e quindi con lo spazio originale dell’installazione – e osserva un laboratorio sperimentale ma allo stesso tempo ne entra a far parte, relazionandosi con le opere, abbassandosi, girandovi intorno e mescolandosi con le proiezioni, entrandovi dentro con la propria ombra e generando uno spazio mentale che dialoga con lo spazio fisico della Fondazione. «L’installazione incarna l’idea di diventare veicolo di memoria delle metafore fondamentali che caratterizzano il contesto in cui è stata situata: le rovine romane e i relativi materiali, il fiume, la vita silenziosa degli uccelli e dei passanti, gli sguardi, lo spazio e il tempo, il rapporto tra esseri umani e animali».

Lo spazio come memoria
La resina grezza richiama nel suo colore il Tevere, e funge quasi da clessidra per l’opera: è il fiume a scandire il passare del tempo, come fosse «un orologio interno all’installazione». E proprio il Tevere è presente anche nella terza opera della mostra, Inferiata, un lavoro site-specific che si sviluppa in tre parti e che viene collocato nei punti di accesso alle sale espositive della collezione permanente.
L’opera è costituita da moduli tubolari in ferro che incastonano foglie di platano arrotolate e galvanizzate, raccolte proprio lungo il Tevere. Il risultato è una griglia ramata che sembra trattenere il visitatore, obbligandolo a scegliere un cammino o a rinunciare a una parte dello spazio: «Obbligano un percorso che, in realtà, fa sì che la mostra temporanea e la collezione permanente diventino un unico elemento, perché diventa un percorso circolare», afferma l’artista.

Inferiata impone un limite che non è solo fisico, ma percettivo: le foglie, anche se rese eterne dalla galvanizzazione, conservano una leggerezza naturale che contrasta con l’idea di sbarra, generando quindi un fortissimo bipolarismo fra una sensazione di prigionia e una, coesistente, di fragilità. La scultura agisce come dispositivo narrativo e curatoriale, costringendo a rallentare, a osservare, a negoziare la propria posizione nello spazio. il confine diviene un elemento generativo, e allo stesso tempo costituisce quasi un tentativo di cristallizzazione e materializzazione della memoria: si prova a bloccare il tempo in un eterno autunno, in dialogo con l’azione dello scorrere del tempo in maniera costante e ciclica nel video de I Fruitori. Una memoria che agisce anche in relazione alla città di Roma, per le foglie che determinano un elemento spaziale di immediata vicinanza al Tevere e che costituiscono, dunque, un ulteriore ponte di collegamento per l’osservatore, fra il ricordo di uno spazio altro e le suggestioni suggerite dallo spazio.
La Fondazione D’ARC
Tre corpi non si limita a presentare due nuove opere, ma interroga attivamente la natura della Fondazione D’ARC e le sue potenzialità. Fondata da Giovanni e Clara Floridi in un un’ex fabbrica di manufatti in cemento, sita ai piedi di una parete di tufo il cui terrapieno cela una vasta domus romana, la Fondazione ospita nei 6.000 mq – ristrutturati dallo studio 3C+t Capolei Cavalli Architetti Associati – la collezione permanente dei coniugi, che si articola in dieci sale e che vede i nomi di alcuni fra i più grandi artisti dagli anni Cinquanta a oggi: Giulio Turcato, Jannis Kounellis, Alighiero Boetti, Anselm Kiefer, Joseph Kosuth, Peter Halley, Vanessa Beecroft, Giulia Cenci, Mateusz Choróbsk e molti altri. Il progetto espositivo, curato da Giuliana Benassi, si pone l’obiettivo di attivare questi spazi attraverso pratiche che siano al tempo stesso site-specific e transdisciplinari, promuovendo una produzione che pensi alla pratica artistica proprio in relazione allo spazio espositivo.

In questo scenario, il lavoro di Lulù Nuti appare esemplare. La sua scultura non si limita a occupare lo spazio ma lo decodifica e lo riattiva, rendendolo organismo sensibile. Le sue opere incorporano la tensione tra ciò che è costruito e ciò che sfugge, e allo stesso tempo la tensione tra la forma e l’erosione. Tre corpi – nella sua apparente semplicità – è una mostra stratificata e pregna di significati. E forse, proprio per la tensione delle opere allo spazio circostante e per la loro azione attiva nei confronti di esso, il visitatore si sente catapultato con immediatezza disarmante nella poetica alla base della produzione di Lulù Nuti, e riesce immediatamente a connettersi con essa.