-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Marco Nones, il suo Grido d’acqua per Trento Film Festival
Arte contemporanea
Trento Film Festival, ponendo al centro del proprio progetto il rapporto tra l’uomo e la natura, è da sempre interessato al tema della sostenibilità ambientale, economica, sociale, organizzativa: è su questo palcoscenico che Grido d’acqua, di Marco Nones, vive nella forma visiva di 40 dischi di ghiaccio e foglia d’oro.
«È un’immagine che sovente avvicino a Marco Nones: un cerchio. Perfetto, senza inizio e senza fine. Quanti significati può avere il cerchio? Rappresenta il Tempo come successione continua di istanti, ma è anche un simbolo del Tempo ciclico, infinito, rinnovabile e universale, persino una metafora esistenziale, che la scelta del materiale fortifica: ghiaccio, che si crea e si trasforma; oro, che si trova e ed è immune alla variazione. La circolarità, formale e concettuale di Grido d’acqua appartiene all’azione umana, e restituisce l’idea che il cerchio si riferisca alla relazione fondamentale dell’uomo con se stesso e con l’ambiente circostante». L’opera, installativa e performativa al contempo, Marco l’ha pensata come un’ode alla purezza dell’acqua, alla montagna che la custodisce, e all’urgenza – oggi più che mai – di trattarla con rispetto, attenzione e gratitudine. Attraverso un gesto artistico forte e delicato al tempo stesso, Marco Nones utilizza CEDEA come voce simbolica dell’acqua stessa: non per denunciare, ma per richiamare, con poesia e forza, l’importanza di ogni singola goccia. Lo incontriamo, ventiquattro ore prima, per approfondire qualcosa di effimero. Quando consideriamo l’effimero non possiamo prescindere dalla sua relazione co-determinante con l’archivio, che si rivela strumento gnoseologico per capire cosa è in gioco nel modo di costruire, materialmente, un’azione. Riconoscendo che l’effimerità di Grido d’acqua non è in antitesi con la sua possibilità di archiviazione ma, al contrario, essa è garantita dalla documentazione che ne sopravvive, il fuoco dell’indagine si sposta sulle componenti in cui l’effimero risiede.

Marco, inizierei con il chiederti della montagna, che appartiene alla tua biografia e anche alla tua ricerca. Cosa rappresenta per te e come sta cambiando?
«Sono nato alle soglie dell’inverno, in montagna, e la neve ha accompagnato la mia vita. Sono le parole di Mario Rigoni Stern, l’incipit di un suo libro, Stagioni. Io sono nato in riva al Reno, in Svizzera, in un giorno di neve. Le montagne della valle di Fiemme mi hanno accolto ancora bambino. I boschi mi hanno mostrato muschi, licheni, funghi, rocce, arbusti e alberi. Infinite forme, figure affascinanti. L’agricoltura eroica della montagna, la semina nel tempo giusto, la speranza, il profumo del fieno ai primi di luglio, il sapore dei piccoli frutti selvatici, il riposo invernale. Nasce da qui il mio lavoro. Voglio custodire in uno scrigno senza tempo tutte queste sensazioni. Per questo la montagna mi è necessaria, mi è necessario soprattutto l’inverno con i suoi silenzi e le lunghe ombre, sono fonti di ispirazioni inesauribili. La questione della vita in montagna è delicata. Le montagne non cambiano, cambiano le nostre abitudini. Alcune si spopolano perché sono diventate scomode e ritornano selvatiche. La montagna non cambia. Alcune sono prese d’assalto, non si spopolano ma vengono vissute senza stupore. La montagna non cambia».

Grido d’acqua è, al contempo, un inno all’esistenza e un grido a non restare immobili, un grido che squarcia un apparente rumore bianco. Come è nata l’opera e come l’hai realizzata?
«Grido d’acqua ha emesso il primo suono lungo una pista da sci, era il 2011, poi in riva al mare, in estate, quindi ha conquistato una vetta selvaggia. Si è poi dissolto in un palazzo in città, sul sagrato di un Duomo, ora in una piazza cittadina. In Grido d’acqua il ghiaccio assume la forma solida di un disco, una goccia o un cervello. L’osservatore è attratto dalla dissolvenza corale del ghiaccio. Lo scioglimento delle uova appare disarmante, inarrestabile. La visione scatena l’istinto di fermare lo scorrere del tempo, e con esso la dissolvenza di un bene prezioso. Grido d’acqua è nato dall’urlo di dolore che mi provoca l’indifferenza verso i temi ambientali. È anche un riferimento al cantico delle creature».

Un’immagine che sovente avvicino alla tua opera è il cerchio. Grido d’acqua stessa è composta da 40 dischi – cerchi, intuitivamente – in ghiaccio e foglia d’oro. La scelta di questi materiali, acqua e oro, fortifica la sensazione di una metafora esistenziale. Quanto è importante la connessione dell’uomo con l’ambiente circostante?
«È fondamentale perché l’ambiente siamo noi, nel senso, ne siamo parte. Questa installazione di ghiaccio e oro potrebbe dare un senso a questa riflessione. L’osservatore, nel vedere sciogliere il ghiaccio e sparire l’oro, su cosa sarebbe più concentrato? Sul metallo prezioso o sulla semplice acqua? Cosa è vita? Per me l’ambiente naturale è casa, mi sento un tutt’uno. Riesco a provare stupore osservando l’ovvio. Stabilire una connessione, con l’ambiente, significa proprio risvegliare il senso di meraviglia. Nel cerchio vedo la risposta alla mia ricerca artistica. Sono giunto a questo segno perché è vivo, dinamico. Espandendosi o implodendo può contenere il tutto. Devo anche dire che non sempre l’artista riesce a decodificare i segni che traccia. A mio avviso non dovrebbe interpretare ciò che crea. Parlavamo di connessione. Ogni lavoro è frutto di una connessione fra diversi vissuti e piani di realtà. Ciò che arriva è il risultato di un sentire così misterioso da non poter essere tradotto. Nessun pensiero logico può descrivere un segno che giunge da uno stato di espansione della coscienza. La forma e il segno hanno un linguaggio che si rivolge ai sensi in modo diretto. Meno si interpreta, più si riceve».
