03 agosto 2020

Neon, coccodrilli, Fibonacci: un racconto ispirato a Mario Merz

di

Metamorfosi: un racconto per "Time is mute”, la retrospettiva dedicata a Mario Merz, in esposizione al museo Reina Sofia di Madrid

Mario Merz, Coccodrillo perfetto, 1995

Time is mute” è la retrospettiva dedicata a Mario Merz (Milano 1925, Milano 2003) in esposizione al Museo Reina Sofia di Madrid, inaugurata l’11 ottobre scorso e visitabile fino al 30 agosto. Il titolo, tratto da una poesia dell’artista, come spiegato dal curatore Manuel Borja-Villel, si riferisce all’ “orrore” per una visione del tempo lineare, per la rigidezza di una concezione storicista dell’arte. Le opere di Merz non si concludono al momento della loro realizzazione, ma continuano a evolversi, a trasformarsi.

Tutta la produzione di Merz, protagonista dell’Arte povera, movimento torinese nato durante gli anni Sessanta attorno al compianto Germano Celant, ha in sé una precarietà, un continuo divenire. D’altro canto però potrebbe apparire congelata in una dimensione anacronistica. Le sue installazioni con materiali naturali (ghiaia, argilla, rami) o scarti industriali (lastre di vetro, metallo, cemento) sono sospese in un immaginario preistorico, alla ricerca di forme originarie e archetipiche che si ripetono in continuazione come l’igloo, il tavolo, la spirale. Alla preistoria appartengono anche molti degli animali terribili che Merz rappresenta e nei quali amava identificarsi, immagazzinare la sua psicologia.

Mario Merz, Time is mute, Museo Reina Sofia, Madrid

Ispirandosi ad alcune suggestioni della mostra e ad alcuni illuminanti scritti di Merz, inseriti nella raccolta Voglio fare subito un libro (Hopefulmonster, 2005), Andrea Vilasi ha scritto Metamorfosi. Il racconto è nato all’interno di un progetto promosso dalla Fondazione Merz, uno degli organizzatori di “Time is mute”, che ha invitato dodici studenti della Scuola Holden di Torino a interagire creativamente con l’opera dell’artista. Qui maggiori dettagli sul progetto e i tre racconti vincitori.

Tra i riferimenti espliciti del racconto a Merz, oltre quelli già citati, c’è anche il tratto tipico di alcuni disegni eseguiti senza staccare la penna dal foglio (a cui è ispirato l’ultimo paragrafo) in cui la mano «registra quello che il cuore vede»;  la necessità di fuggire dalla bidimensionalità del quadro per occupare lo spazio (interessante, a tal proposito, un aneddoto sull’accumulo spasmodico di pittura di Merz in un dipinto); l’esaltazione della lumaca e del suo osso totale, perfetto, a spirale, centro della spirale stessa del cosmo.

Ma soprattutto la struttura in diciassette paragrafi, ognuno contenente un numero di caratteri (spazi esclusi) esattamente pari al valore progressivo della serie di Fibonacci: 1 1 2 3 5 8 13 21 34 55 89 144 233 377 610 987 1597.

Metamorfosi

di Andrea Vilasi

 

I

 

o

 

lo

 

so.

 

Lo so.

 

È sicuro.

 

Non uscirà mai.

 

Da questa ruvida tavola.

 

Il coccodrillo è immobilizzato dentro.

 

Adagiato su un drappo di foglie dorate, congelato nella tempera.

 

Sotto il neon giallo acceso, nel silenzio della tenda, delineo con il pennello la coda squamata e il dorso.

 

L’animale ha il mio stesso nome. Ho rovesciato sulla carta tutti i miei colori, gli unici che avevo, anche l’ultimo tubetto è finito. Vorrei… che la mia creatura fosse viva.

 

Vorrei sentire l’odore e sfiorare i contorni lanceolati di ognuna delle foglie che lambiscono il ventre del mio coccodrillo. Vorrei trovarmelo qui davanti in pieno spazio, guardarlo negli occhi e dirgli: tu sei me. Il neon sopra la mia testa inizia a sfarfallare: è la batteria.

 

Guardo in alto e una piccola lumaca sta strisciando verso la lampadina. Ha smesso di piovere da poco, fuori ce ne saranno milioni. Giunta sul vetro del neon, il suo corpo molle e il guscio si accendono, diventano incandescenti. Non soffre il caldo? C’è l’ennesimo sfarfallio, poi la luce si spegne. Sono al buio. Sgancio il neon per cambiare la batteria: la lumaca è sparita. Adesso però intravedo un chiarore scivolare lento sull’esterno della tenda.

 

Corro fuori, sul poliestere scuro non c’è nulla. Controllo sull’erba, forse è caduta: non la trovo. Il profumo delle foglie bagnate invade i polmoni, e un vento pungente mi invita a rientrare. Sono già dentro con una gamba, quando con lo sguardo finisco in lontananza, nel bosco. Nel buio mi sembra di scorgere un brillio rosso tagliare a metà il prato. Non può essere. Inizio a camminare, aumento il passo, arrivo al punto esatto e… niente. Niente assoluto, sono solo stanco. Le fronde dei due castagni secolari che vegliano sull’ingresso del bosco adesso proiettano sul mio viso viventi ombre multiformi. Respiro a fondo, ed eccola. Molti metri più avanti, imprigionata nella tenebra di tronchi e rami, una nuova luce. La seguo.

 

Il mio piede cammina veloce e scricchiola, comprime le sue ossa come una pigna solitaria i suoi pinoli. La luce mi attira ma più mi avvicino più quella scappa, si allontana, diverge da me nello spazio e nel tempo. Corro ancora, ormai non so più da quanto, poi non la vedo più. Mi fermo. Provo a orientarmi e riconosco un odore familiare: dietro questi alberi c’è il lago. Un bacio viscido sulla nuca mi fa rabbrividire. Lo sento muoversi lungo il collo, scendere dalla spalla all’avambraccio, lambire la mia mano. È lei, la lumaca incandescente. Ora è immobile sul mio palmo, brilla purpurea nella notte. Invidio il suo unico osso, il guscio piccolo e preciso, immacolata energia pulsante nel buio. Mentre continuo ad avanzare, il bosco intero sembra nascere da quell’unica spirale splendente nelle mie mani. In pochi passi sono al lago. Un forte vento scuote il letto di foglie umide sulla riva. Quando lascio a terra la lumaca quella si dirige verso l’acqua. Mi tolgo le scarpe e la seguo sugli scogli. Senza esitazione il globo di luce rossa si immerge e io mi chino per osservare lo strano fenomeno. Di colpo una ventata mi spinge in avanti. Assesto il piede sullo scoglio, scivolo e cado.

 

Mi dimeno nell’acqua, adesso i miei movimenti sono possenti e letali, le mie mani zampe, le unghie artigli, la pelle dura superficie squamata, gli occhi mandorle scintillanti, i denti fauci acuminate che, uscito all’aperto con un guizzo di coda, si spalancano per produrre parole senza riuscirci, e precedono lo strisciare a riva della mia pancia sugli scogli, mentre il vento ora cresce, grida, squassa il letto di foglie e le solleva erigendo una sontuosa architettura che invade lo spazio, nell’indifferenza di una lumaca incandescente che incede sul mio dorso e atterra al suolo, invocando decine e decine di altre lumache a scendere dai rami in processione solenne, unirsi a lei in un cumulo di energia, una semisfera di magma vitale che palpita e si propaga verso tutto il bosco circostante giungendo ai fili d’erba, ai fiori e alle radici di un albero, vibrando lungo il tronco e liberandosi dalle fronde in sbuffi di anidride carbonica, intercettando i fotoni lunari diretti alle profondità sorde del lago, grembo di pesci e alghe, per produrre nuovo ossigeno per le acque e il cielo, ossigeno che penetra le mie narici e quelle dello spettro che ora è immobile al limitare del bosco, l’essere umano che fui, il mio passato che fissa senza paura i miei occhi gialli e glaciali e poi torna tra gli alberi nel mio silenzio, nel mio urlare senza voce, nel mio disperato tentativo di seguirlo lungo la strada che mi ha portato al lago, buia adesso, senza luci o indicazioni se non quelle impresse nel mio sangue freddo, in quella foresta d’atomi che mi scorre dentro mentre ritorno alla tenda, entro, contemplo il mio riflesso nella montagna di tempera col mio stesso nome e scopro finalmente chi sono, per poi, accovacciato a terra, chiudere gli occhi, mentre dalla mia coda una spirale luminosa si solidifica in un guscio di lumaca, risale lungo le pareti della tenda e svanisce imprigionata nell’anima del neon.

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