30 settembre 2021

Nessun uomo è un’isola. Incontro con Otobong Nkanga

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Luoghi della memoria storica e personale, sculture-contenitori colmi di sostanze naturali dalle proprietà benefiche, habitat locale che si fa universale: è in scena al Castello di Rivoli il mondo naturalista e poetico dell’artista d’origine nigeriana, custode degli insegnamenti dell’Arte Povera

L’artista Otobong Nkanga nel suo studio, al lavoro per la mostra al Castello di Rivoli, 14 luglio 2021. Courtesy Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino. Foto Marcella Beccaria
L’artista Otobong Nkanga nel suo studio, al lavoro per la mostra al Castello di Rivoli, 14 luglio 2021. Courtesy Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino. Foto Marcella Beccaria

Prima di accedere nelle sale al terzo piano del Castello di Rivoli, Museo d’Arte Contemporanea veniamo accolti, su una passerella, da una sonorizzazione diffusa. È la voce dell’artista che sembra sussurrarci qualcosa. I suoni gutturali però prevalgono e ci spingono a intraprendere il percorso espositivo. Ci troviamo di fronte a pareti dipinte di un acceso giallo canarino. “Volevo creare un certo tipo di temperatura e dare la sensazione del sole. Volevo che il colore potesse evocare un luogo caldo, un luogo dove riposarsi. Vivo ad Anversa dove è sempre grigio”, ci spiega con sincera passione e un filo di emozione Otobong Nkanga, artista d’origine nigeriana, cresciuta in Francia, trapiantata in Belgio, ma cittadina del mondo.

Veduta dell’allestimento della mostra Otobong Nkanga. Corde che si arricciano attorno alle montagne al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea. Foto © Andrea Guermani, Torino
Veduta dell’allestimento della mostra Otobong Nkanga. Corde che si arricciano attorno alle montagne al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea. Foto © Andrea Guermani, Torino

Sul pavimento alcune sculture in legno sono riempite di materiali naturali come lavanda, olio di rosa, camomilla, melissa, ibisco, e in qualche caso di suoni. Le sculture sembrano gioielli “preistorici” giganti collegati tra loro — come una collana di perle — da spesse corde nere, realizzate a mano e quindi irregolari, perfettamente imperfette. Quelle stesse corde si insinuano nelle pareti creando una connessione lineare tra ogni stanza, come se ci trovassimo in un monumentale apparato digerente. I materiali naturali rendono la grande installazione site-specific trasformabile, mutabile. “Le sculture sono contenitori, come il corpo umano che è allo stesso tempo un contenitore e un passaggio. Nel corso della mostra la materia si ossiderà, l’energia cambierà. È una sorta di organismo vivente. È come rigenerarsi costantemente. Sono molti strati differenti, anche se le opere sembrano statiche, stabili. Mi interessa mostrare il processo”. Tutte le sculture in legno sono state ricavate da un solo albero di faggio, morto tre anni fa. L’artista fa una scrupolosa ricerca di materiali che non possano “intaccare” la natura, preservandola. “Lavoro a stretto contatto con gli artigiani. Tutte le opere sono fatte a mano e cerco il più possibile di usare materiali naturali, non inquinanti”. Di sala in sala, la palette colore delle pareti si fa più autunnale, con le tipiche nuance del foliage. Il caldo che l’artista voleva evocare non sembra essere quello del nostro mediterraneo ma del nord Italia, territorio che Otobong Nkanga ha esplorato e indagato per realizzare il progetto. Ma gli elementi locali si fanno universali. Quei colori potrebbero anche evocare uno scenario desertificato, dove la terra è arida, scura e il cielo si colora di un arancione intenso. L’Africa ad esempio, sua terra natia. Molte delle pareti ospitano anche appunti, brevi poemi che l’artista ha scritto mentre lavorava alla mostra. Ha usato il gessetto senza volutamente fissarlo. Anche qui torna il potere trasformabile della materia che Otobong sembra attribuire anche alla parola. Si arriva a una stanza con due tappeti a terra che l’artista ci descrive così: “Quando ho cominciato il progetto volevo partire dai sassi. Come quando si scala una montagna e poi ci si stende su una roccia che diventa un letto morbido. Da qui parte tutta la mostra. I due tappeti ricordano le forme di minerali come il quarzo e la malachite. C’è la fluidità del paesaggio, l’acqua, la terra. Il paesaggio è inserito in ogni singolo elemento. E anche in questo caso ho voluto immettere elementi legati al corpo. Elementi che possano essere usati per il corpo, con il corpo. Quei tappeti diventano uno spazio performativo”. L’artista prende in mano una scultura sferica in argilla che, soffiandoci dentro, si trasforma in strumento musicale. Quei tappeti sono macro paesaggi immaginari che a loro volta, attraverso alcune sculture in vetro e argilla posizionate sopra, diventano ulteriori micro paesaggi. “Spero che nel corso della mostra si possa ‘usarli’ per delle performance. Purtroppo a causa della pandemia e con le attuali restrizioni al momento non è possibile”. In effetti senza la possibilità di poterli vivere, sdraiarcisi sopra, quei tappeti, soffici superfici in cui stendersi, riposare e meditare, perdono il loro potere attivatore e in qualche modo “benefico”. Lo stesso vale per i profumi dei materiali naturali scelti dall’artista, “attutiti” dalle mascherine. L’installazione di Otobong Nkanga è ben congeniata, “congelata” nel perfezionismo e nella spettacolarità scenografica del display, ma non scalda il cuore, non inebria tanto quanto avrebbe forse desiderato l’artista che però ci ricorda una cosa importante — ancor più in questo periodo, prima di isolamento, ora di distanziamento sociale — ovvero, come scrisse il poeta e saggista John Donne tra il XVI e XVII secolo: “Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto”. E tutto è interconnesso. Come quelle corde nere che, come ancoraggi salvifici, ci accompagnano per tutta la mostra.

L’artista

Otobong Nkanga (Kano, Nigeria, 1974, cresciuta in Francia, vive e lavora ad Anversa) durante gli studi a Parigi è stata allieva di Giuseppe Penone e la sua passione per l’Arte Povera l’ha fatta diventare una sua erede diretta per l’uso dei materiali naturali e per il loro potere trasformativo. Nel 2017 ha partecipato alla mostra L’emozione dei COLORI nell’arte tenutasi al Castello di Rivoli e alla GAM di Torino. In quell’occasione nella Manica Lunga del Castello l’artista ha esposto l’opera Kolanut Tales: Slow Stain (I racconti della noce di cola: macchia lenta, 2012-2017) entrata poi a far parte delle Collezioni del museo. È la noce di cola che — ci racconta la direttrice Carolyn Christov-Bakargiev — gli schiavi africani portarono in America. Quella stessa noce di cola che è si è poi trasformata nella globale Coca Cola, “ripulita” delle sue vere origini e delle sue implicazioni storiche e sociali.

La mostra

Curata da Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Beccaria, la mostra dal titolo Otobong Nkanga. Corde che si arricciano attorno alle montagne (dal 25 settembre 2021 al 30 gennaio 2022) ideata appositamente per il Castello di Rivoli e concepita come una diffusa installazione ambientale site-specific, è parte del progetto di collaborazione con Villa Arson di Nizza dove è stata presentata la prima retrospettiva in Francia dell’artista. Il progetto è vincitore dell’avviso pubblico PAC2020 – Piano per l’Arte Contemporanea, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. In occasione di questa duplice mostra, le due istituzioni sono co-editori di un catalogo scientifico con un apparato dedicato alla storia espositiva di Otobong Nkanga dai suoi esordi ad oggi.

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