07 giugno 2025

Orama, la pittura di Eleonora Rinaldi come soglia percettiva

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Visioni interiori a Ca’ Pesaro: Eleonora Rinaldi esplora il confine tra sogno e realtà. Ne parliamo con i curatori della mostra, Francesco Liggieri e Christian Palazzo

Órama. Eleonora Rinaldi. Veduta dell'allestimento. Credits Matteo De Fina

Visione, sogno e allucinazione nella mostra di Eleonora Rinaldi, fino al 27 settembre 2025 nella Project Room di Ca’ Pesaro a Venezia. Un dialogo con i curatori Francesco Liggieri e Christian Palazzo sulla lentezza dello sguardo e la costruzione di un immaginario interiore.

Órama. Eleonora Rinaldi. Veduta dell’allestimento. Credits Matteo De Fina

Il titolo della mostra, Órama, evoca un duplice significato: visione e sogno. In che modo questa ambivalenza semantica si traduce nella curatela della mostra e nella lettura delle opere di Eleonora Rinaldi?

Liggieri «Siamo tre persone con approcci e sensibilità molto diverse, anche se ci unisce un terreno comune di riferimento e intuizioni. In questo progetto ognuno ha portato il proprio “demo”, come accade in una sala di registrazione dove i musicisti condividono bozze di brani. Abbiamo cominciato così: scambiandoci suggestioni, titoli di libri, ipotesi di lettura. Personalmente ho attinto molto da letture legate alla psicoanalisi, alla metafisica e alla psicologia, anche se non tutte si sono rivelate decisive. L’ambivalenza tra visione e sogno è entrata gradualmente nel lavoro curatoriale, ma ha trovato una sintesi solo nel momento in cui Eleonora ha iniziato a produrre le prime opere. Da lì in avanti è stato un gioco a incastri, una costruzione collettiva in cui la coerenza si è formata strada facendo. Come spesso accade nei lavori di gruppo, la visione finale è stata il frutto di uno sguardo condiviso, maturato insieme davanti a ciò che stavamo vedendo nascere».

Palazzo «Órama, come hai detto tu, è visione, sogno, ma anche allucinazione – uno stato cognitivo alterato del nostro cervello. Da parte mia, mi sono dedicato alla lettura di Oliver Sacks, neurologo e autore di numerosi libri in cui analizza con grande precisione gli stati percettivi. Ho approfondito questa tematica, e trovo significativo che ognuno di noi, con il proprio bagaglio emotivo e culturale, sia arrivato a un punto di incontro attraverso percorsi differenti».

Órama. Eleonora Rinaldi. Veduta dell’allestimento. Credits Matteo De Fina

Avete seguito da vicino il lavoro di Eleonora Rinaldi per questa mostra, come si sviluppa il suo processo creativo? Che tipo di relazione instaura con il colore, la materia pittorica e l’immagine? E in che modo questo approccio si riflette nelle opere esposte in mostra?

Palazzo «Abbiamo seguito Eleonora Rinaldi nel percorso che ha portato alla realizzazione di questa mostra, e posso dire che il suo processo creativo si muove sempre in un equilibrio sottile tra rigore del disegno e abbandono nel colore. C’è in lei un’attenzione quasi chirurgica alla costruzione dell’immagine, ma allo stesso tempo un’apertura al caso, all’imprevisto, alla vibrazione emotiva che può emergere da un segno o da una superficie. Per quanto riguarda l’immagine, Eleonora lavora per frammenti. Non c’è mai una narrazione esplicita: piuttosto, un invito a entrare in uno stato mentale, quasi meditativo. I suoi lavori sono territori, luoghi di passaggio tra il visibile e l’invisibile.

Tutto questo si riflette in modo evidente nelle opere in mostra: lavori che chiedono tempo, silenzio, attenzione. Sono opere che non si impongono, ma che si rivelano poco a poco, nello stesso modo in cui si rivela un sogno quando si cerca di raccontarlo al risveglio, non sempre con parole esatte, ma con immagini che restano».

Come si è intrecciato il vostro incontro con Eleonora Rinaldi? Ci raccontate com’è nata l’idea della mostra Órama e quali intuizioni, dialoghi o visioni condivise ne hanno dato origine?

Liggieri «Tutto è cominciato nell’estate del 2024, quando ho visitato una mostra nella project room di Ca’ Pesaro e ne sono rimasto affascinato. Mi sono detto: “Qui ci starebbe un progetto che sappia dialogare con l’intimità di questo spazio”. Ne ho parlato con Christian, direttore dello Spazio San Vidal, e da lì è cominciato un confronto su chi potesse dare forma a questa intuizione. Il nome di Eleonora è emerso con naturalezza. Poco dopo, sono andato a trovarla in studio, in Friuli, e le ho proposto l’idea. Ma il progetto vero e proprio ha preso forma solo all’inizio del 2025, in un periodo in cui Eleonora stava anche affrontando un trasferimento a Parigi. In quei mesi ci siamo immersi in un flusso di letture, visioni, riflessioni: dal Libro Rosso di Jung ai testi sulla psichedelia, fino alla biografia di Keith Richards. Tutto contribuiva ad alimentare un paesaggio mentale da cui sono emerse le opere. Confesso che anche i sogni hanno avuto un ruolo nel mio percorso: alcuni di essi, in quel periodo, sono stati talmente vividi da sembrare rivelatori. Sono stati come appunti notturni per la scrittura del testo curatoriale e per l’elaborazione del progetto nel suo insieme».

Órama. Eleonora Rinaldi. Veduta dell’allestimento. Credits Matteo De Fina

Il progetto si inserisce negli spazi di Ca’ Pesaro, una sede storica dell’arte moderna e contemporanea. In che modo il contesto della Galleria Internazionale ha influenzato il vostro lavoro?

Palazzo «Lo spazio espositivo ha avuto un’influenza totale sul progetto. Prima di tutto, siamo andati più volte a visitarlo, cercando di comprendere anche il significato che potessero assumere elementi come il colore delle pareti. In un luogo così intimo, era inevitabile che Eleonora intraprendesse un percorso nuovo, con opere pensate appositamente per questo contesto. Credo che la distanza da Venezia le abbia fatto bene. Lavorare a Parigi, mantenendo un certo distacco fisico dallo spazio della mostra, ha permesso ai lavori di prendere una forma diversa, di sviluppare un altro tipo di visione.
Naturalmente, non è stato semplice per Eleonora confrontarsi con opere storicizzate e con i grandi nomi presenti nella collezione di Ca’ Pesaro. Ma proprio mettendoci nei suoi panni, io e Francesco siamo riusciti a creare un clima costruttivo e sereno, evitando tensioni inutili che, come sappiamo, in situazioni simili possono facilmente emergere».

Liggieri «Ho pensato subito a quella sala come a una moderna “caverna platonica”: luci soffuse, proporzioni raccolte, un’atmosfera che invita all’introspezione. Era perfetta per ospitare una mostra come Órama, che si muove tra sogno e visione, tra immagine e assenza. Per me, la curatela inizia sempre dallo spazio: quando lo vedo, visualizzo immediatamente la mostra che potrebbe abitarlo. In questo caso, non riesco a immaginare Órama in nessun altro luogo. È come se la mostra e lo spazio si fossero trovati a metà strada, riconoscendosi».

Órama. Eleonora Rinaldi. Veduta dell’allestimento. Credits Matteo De Fina

Qual è, secondo voi, oggi il ruolo della curatela nel guidare, o disorientare, lo sguardo dello spettatore davanti a opere che sembrano volutamente sfuggenti, enigmatiche? La mostra cerca di fornire strumenti interpretativi o preferisce lasciare spazio a una lettura aperta e personale?

Liggieri «Credo che la curatela debba mantenere un ruolo essenziale ma discreto. Il curatore dovrebbe permettere all’artista di esprimersi pienamente e, al tempo stesso, offrire al pubblico un accesso autentico alla bellezza e alla complessità delle opere. Troppo spesso si vedono mostre in cui sembra che l’autore del progetto sia il curatore, come se volesse sovrascrivere l’artista. Io non la penso così. La mostra è dello spettatore: il nostro compito è facilitare un’esperienza, non determinarla. In Órama, non offriamo chiavi interpretative rigide, ma cerchiamo di creare un contesto di ascolto. Sta a chi guarda decidere cosa cogliere, cosa vedere, cosa portare via con sé. L’arte didascalica, che pretende di spiegare tutto, mi interessa poco. Credo invece nel potere della suggestione e nella capacità del pubblico di trovare senso in base alla propria esperienza».

Palazzo «Il visitatore deve avere soltanto delle minime linee guida, e da lì poter “vedere” con i propri occhi, con la propria mente, con il proprio bagaglio personale ed emotivo. L’obiettivo è quello di creare uno spazio percettivo e mentale in cui sentirsi immersi, come in uno stato meditativo, lasciandosi attraversare dall’energia delle opere senza il bisogno di decifrare tutto razionalmente».

In un presente dominato da immagini rapide e frammentarie, Órama propone uno sguardo lento, immersivo, quasi meditativo. Pensate che l’arte oggi possa ancora aprire spazi di visione interiore, capaci di sottrarci alla frenesia percettiva contemporanea?

Liggieri «Credo fermamente che dovrebbe essere questo uno dei compiti fondamentali dell’arte: aprire spazi in cui il pensiero possa muoversi liberamente, senza essere costretto dalla velocità o dalla funzionalità. Non sempre accade, certo, ma ci sono ancora mostre capaci di fermare il tempo, o almeno di sospenderlo. Io ne sto vedendo diverse ultimamente, e questo mi rende fiducioso. Órama nasce proprio da questo desiderio: offrire un tempo altro, uno spazio interiore in cui il visitatore possa rallentare, ascoltare, vedere davvero. È un invito a disconnettersi dal rumore per riconnettersi a sé».

Palazzo «Oggi, più che mai, l’arte deve farci riflettere. Deve entrare lentamente, quasi silenziosamente, nelle vene dello spettatore. Abbiamo un bisogno profondo di lentezza, di assaporare ogni minimo dettaglio, di fermarci, concentrarci, osservare senza fretta. Secondo me, questa è la funzione fondamentale dell’arte contemporanea: contrastare la superficialità del nostro tempo. Non banalizzare».

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