29 novembre 2022

Perché un gallerista è importante? Un ricordo e tante storie di Pio Monti

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Ricordando Pio Monti, grande gallerista recentemente scomparso, ripercorriamo le stagioni dell'arte contemporanea d'avanguardia che attraversarono Roma

Pio Monti e Alighiero Boetti

Come si fa, a dire perché un gallerista è importante?

A Roma, nelle situazioni con cui il mercato ha dovuto confrontarsi da sempre, i galleristi che hanno fatto la storia della città, meriterebbero tutti, indistintamente, il Palmarès. Erano loro i veri “curatori” delle mostre, i compagni di strada e i sostenitori degli artisti – anche nella vita privata – dimentichi di qualsiasi riscontro di mercato, poiché la posta in gioco era una rivoluzione esistenziale e di costume che non poteva prescindere anche dalla rivoluzione nei rapporti tra produzione e consumo, quelli cui, persino l’arte d’avanguardia, cessato il momento d’urto, non era riuscita a sottrarsi.

A Roma, i galleristi di quella splendida stagione erano quattro, Plinio De Martiis, Gian Tommaso Liverani, Fabio Sargentini e, appena arrivato da Torino, nel 1971, Gian Enzo Sperone. Giunto a Roma dalle originarie Marche, alla metà degli anni Settanta, a loro si affiancò subito Pio Monti, con un inizio dal forte azzardo strategico. Come lui originario delle Marche, Gino De Dominicis proprio in quel momento stava maturando una di quelle svolte chiave, capaci di far fare il classico salto quantico a nuove concezioni della realtà e dell’arte. Dopo aver già dato prova della sua genialità con le mostre a L’Attico di Fabio Sargentini e con lo scandalo della Biennale veneziana del 1972, che gli era valso un processo – ma anche tanto successo e clamore per aver esposto il giovane Paolo Rosa, affetto dalla sindrome di Down – a rappresentare la propria concezione sull’immortalità dell’arte – De Dominicis aveva in mente qualcosa di molto speciale.

Michelangelo Pistoletto e Pio Monti, 1969

Si trattava di realizzare nello stesso luogo – la galleria di via Principessa Clotilde di Pio Monti appunto – a un passo dal cuore della vita artistica romana che si svolgeva allora intorno a piazza del Popolo, la stessa identica mostra, con gli stessi oggetti – un’enorme pietra, un’asta in bilico, due vasetti rappresentanti l’Ubiquità e una piramide “invisibile” – nella stessa identica posizione, nello stesso giorno e alla stessa ora – ma un anno dopo – per dar prova della facoltà dell’arte di sospendere e annullare il tempo. Pio Monti lo assecondò semplicemente, impegnandosi tuttavia sino al punto di sostituire la maniglia di una porta che era stata modificata, perché tutto risultasse perfettamente identico al visitatore che, invitato per la seconda volta, si sarebbe trovato davanti alla stessa mostra e non avrebbe potuto fare a meno di cominciare a interrogarsi.

A quel punto, la sfida – perché di sfide si viveva allora – era vinta: Pio Monti, dopo l’iniziazione, cui questi artisti erano capaci di sottoporre i loro collaboratori, si era ampiamente guadagnato non solo la stima dell’artista, ma anche il suo spazio nella rosa dei galleristi romani più importanti.

Sol LeWitt e Pio Monti, 1972

Pio era arrivato a Roma facendo il rappresentante di cosmetici della Revlon, in particolare di quella mitica crema, Eterna 27, che prometteva di arrestare all’età di 27 anni l’invecchiamento – una sorta di premonizione dell’approccio alla temporalità dell’arte, a cui lo avrebbe poi abituato De Dominicis, ma non era certamente digiuno d’arte, e neanche di arte contemporanea. A 28 anni, nel 1969, aveva aperto nella sua città Artestudio Macerata, una galleria che stampava edizioni d’arte e da cui erano passati nomi molto importanti: Josef Albers, Ben Vautier, Daniel Buren, François Morellet, Victor Vaserely, Ludwig Wilding, Richard Paul Lhose, Max Bill, Carlos Cruz Diez, Mario Merz, Getulio Alviani, Sol LeWitt (a questi due ultimi Monti sarebbe restato sempre legato anche in seguito). Ossia i maggiori nomi del minimalismo europeo e americano, che in qualche caso Monti era andato a stanare in giro per il mondo, oltre a un membro dell’Arte Povera. Era anche incappato nello Zoo di Michelangelo Pistoletto, un collettivo di gente proveniente dalle più varie forme artistiche che realizzava spettacoli o azioni in strade, piazze, discoteche, birrerie, teatri e gallerie d’arte, avvicinando le più avanzate esperienze performative e comportamentali di allora.

Roma è stata fatta dai provinciali e questo provinciale di una delle regioni che meglio poteva esprimere il sapore della cultura italiana – quella dell’Italia Centrale – aveva subito capito che, per non farsi intimidire dalla spavalda insolenza romana, bisognava coprire l’ingenua attitudine allo stupore e la suprema civiltà di quei luoghi intatti con una patina di cinismo, che nell’ironia di battute e trovate, poteva stare a qualsiasi gioco, senza mai trovarsi fuori posto e anzi, potendo gareggiare in qualsiasi contesto con grande destrezza.

Leo Castelli e Pio Monti, 1986

Dietro la simpatica irriverenza da eterno ragazzaccio e il cinismo di facciata, batteva, però, un cuore tenero e un po’ romantico, capace di legarlo indissolubilmente alle proprie amicizie (i nomi dei suoi figli Gino e Nicola sono un omaggio a De Dominicis e a De Maria) di rendere omaggio alla bellezza e all’arte, alla poesia e alla musica, nonché un’inarrestabile versatilità e un fiuto imbattibile per l’impaginazione di mostre, cataloghi e splendide pubblicità.

Alcune mostre straordinarie ne stabiliscono la caratura: oltre alle due identiche di Gino De Dominicis nel 1977 e 1978, Le sbarre violate, il Lampadario antientropico, Urvasi e Gilgamesh prima versione (1980), anticipano la svolta verso la pittura – ufficialmente presentata da Gian Enzo Sperone a via Quattro Fontane nel 1982, ma lungamente elaborata,  proprio nella galleria di via Principessa Clotilde, che Monti gli lasciò usare come studio per giorni e giorni; “Vettor Pisani Uno due 3 4 5 6 7” (1977), che si ispirava al tema di Alice nello specchio e portava in scena, quale antico simbolo di imitazione, la celebre scimmietta Angelina, anticipando la magnifica edizione della Biennale veneziana “Dalla Natura all’Arte, dall’Arte alla Natura” (1978), con l’analoga installazione; la mostra di Emilio Prini (1979) con il grande Manifesto del suo ritratto con l’occhialino, scattato da Claudio Abate e quella di Nicola De Maria (1988); Il “Teatrino” con le poesie dei tanti amici scrittori, di Giosetta Fioroni (1983) e quella orchestrata intorno alla fiaba del poeta Francesco Serrao, “Il Boscaiolo e la Civetta” (1989); “Piopermariemonti” (1988) con i 55 piccoli arazzi di Alighiero Boetti – 17×17 – realizzati per l’occasione; “German Love Sinfonietta” di Vettor Pisani (1989); “Le parole di Enzo Cucchi” (1990); I cicli de “Il Gatto e la Volpe” (1993-94),  “Tre artisti in barca” (2002), “Il Buco” (2005-2006) – dedicato ai rapporti tra l‘arte e la scienza; la serie “Ogni sera con Elisabetta” (2009), dove attorno ai ritratti degli artisti, ogni volta l’interessato creava la sua performance.

Gino gli aveva lasciato in dote, oltre allo sferzante spirito della battuta, la ricerca di un’eccellenza, l’assenza di ogni visione puramente di tendenza o progressiva – in quanto «Tutta l’arte è contemporanea» – a profitto, invece, di magia, scienza e pura qualità. Ma la capacità d’intrecciare i fili fra diversi contesti e discipline, mai con un costrutto esatto, sempre spurio con qualche incursione nell’assurdo e nella poesia, era tutta sua e davvero inesauribile.

Roberto Cuoghi, Ritratto di Pio Monti, 2006

Non solo per le sue sei gallerie romane e per le sue tre marchigiane (tra cui la splendida Villa Valcampana di Treia, città della madre di Monti) Pio ha inventato le sue mostre, ma anche per vari spazi pubblici, dal Flash Art Museum – creato da Giancarlo Politi a Trevi – fra cui spiccano la grande collettiva “L’Arca di Noé”  (1993), “Ritratto Autoritratto” (1994); “Meglio un Asino vivo che un artista morto” di Vettor Pisani (2002); alla mostra di 20 artisti, dedicata a Ettore Majorana a Palazzo Manganelli di Catania (2012) o a quella di Palazzo Collicola di Spoleto, dedicata al Festival dei Due Mondi, intitolata “Tre Mondi – Sol LeWitt, Dino Pedriali, Emilio Prini” (2016).

Pio Monti mancherà molto alla scena dell’arte, era un impasto difficilmente ripetibile di molte qualità e difetti, dotato di una vera personalità e di un talento speciale, come quei purosangue che possono anche perdere qualche corsa e andare alla sconfitta, ma che in tutta la loro andatura mantengono un’innegabile classe e grandezza. Riusciva a inventare condizioni espositive suggestive per gli artisti e a lanciare l’amo della curiosità verso un pubblico, spesso distratto, facendo sorgere una domanda e un dialogo attorno alle cose. Qualcuno, nei suoi ultimi anni ha preteso di utilizzare modalità censorie nei suoi confronti ma sbagliava, perché non si può censurare la grandezza, la simpatia. E l’attaccamento degli artisti e del mondo dell’arte nei suoi confronti ne sono la testimonianza.

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