21 maggio 2022

Perdersi nel paesaggio israeliano

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Come una nuvola (di Fuksas), che dal cielo di Roma si sposta verso Genova, il progetto Israel Landscape arriva a Villa Croce. Con qualche intoppo

Israel landscape - installation view - courtesy Museo di Villa Croce

Repetita? Iuvant, semper. «Questa mostra è nata in poco tempo» l’ha ribadito chiunque abbia preso parola durante la presentazione di Israel Landscape: da Francesca Serrati, direttrice di Villa Croce, a Ermanno Tedeschi, curatore con Vera Pilpoul (non presente, ma magari l’avrebbe detto pure lei), a Maya Katzir, addetta culturale per l’Ambasciata d’Israele in Italia. Ultimi ma non ultimi, gli esponenti di Regione Liguria e Comune di Genova presenti.

La mostra Israel Landscape è arrivata quindi un po’ così, a tradimento, nel museo vista mare – e vista lavori in corso per il Waterfront – più gioiosamente tormentato d’Italia. Già impostata dal passaggio romano di Arte in Nuvola (il gemellaggio, ve lo ricordate?), in questo cambio di contesto Katzir trova un «Cambio di messaggio», indicandola come «Una nuova mostra». Così, per dire.

Nuova o ricondizionata che sia, prima impressione a caldissimo: 30 artisti, circa 60 opere, a intuito ci si sarebbe aspettati l’utilizzo di piano terra e del piano nobile. Ahinoi, scalone inaccessibile non mente sul fatto che tutto sia concentrato al piano terra. Ma, essendo una mostra nata piuttosto al volo e dato che un museo ha pure le sue esigenze, accantoniamo la polemichetta sterile.

Maliziosi, ce l’avete sulla punta della lingua: non si poteva spostare? Negativo, le opere devono rientrare nel loro paese d’origine entro novembre, o comunque subito dopo l’estate. Quindi c’era poco da scegliere.

Israel landscape – installation view – courtesy Museo di Villa Croce

Se le grottesche invadono il paesaggio israeliano

Veniamo in pace e non in polemica. Tuttavia è abbastanza palese che una diluizione maggiore avrebbe giovato tanto – fidatevi di uno che sottolinea “tanto” – alle singole opere, quanto alla mostra più in generale. Quanto a chi – queste prendetele come quisquilie da giorno d’inaugurazione – volendosi gustare e non smozzicare ogni lavoro, non ha voglia di dare spallate – involontarie, mica siamo venuti a “pogare” – ogni due per tre.

Pare però, anche questo concetto è rimbalzato da una bocca all’altra, che la problematica del piano terra non sia di matematica spiccia (una volta si chiamavano conti della serva); secondo cui con 3 sale, per 30 artisti, per 60 opere i conti tornano come quando a scuola si approssimava – senza centrare – il risultato dell’espressione. No, la grana sono le caratterizzanti pareti dipinte a grottesche ottocentesche. Forse troppo caratterizzanti, abbastanza da rendere difficile una convivenza con la mostra. Noi, che proprio in quelle sale hanno visto passare di tutto (da Saraceno a Rajlich per tirare giù due nomi paradigmatici) con risultati più che soddisfacenti, siamo un filo perplessi. Detto ciò, saremmo disonesti se non aggiungessimo che alcune opere non richiedono molto spazio vitale ridotto, e quasi tutte sono da appendere.

I casi sono due: o si trovava un’alternativa alle leggere strutture in legno bianco (la facciamo partire la petizione “salvate il Favelli che è stato chiuso sopra il camino”?), o si traslocava al piano nobile. Così è (anche se non vi pare).

Israel landscape – Menashe Kadishman – Sheep portrait 6 – courtesy l’artista e Museo di Villa Croce

Se le pecore colonizzano il paesaggio israeliano

Per un allestimento poco brillante, c’è Menashe Kadishman che brilla di suo nella sala centrale, subito di fronte all’ingresso.

Kadishman è stato portabandiera israeliano alla Biennale di Venezia del 1978 (sì, quella de Le vacanze intelligenti), intervenendo con un gregge di pecore (sì, quello che faceva pensare ad Alberto Sordi e Anna Longhi d’essere finiti in una stalla). Qui le pecore caratterizzano la sua cifra pittorica. Due primi piani semplici come l’Informale figurativo e forti come un’immagine Fauve, dallo sguardo magnetico e pochi tocchi complessivi. Catalizzano da lontano; per poi farsi adorare da vicino, nella tecnica che mischia tela senza preparazione a – scusate il tecnicismo – “mappazze” di colore, valide nella loro plasticità. Glitter inclusi.

In un’inaugurazione affollata si avvicina Smadar Har-Ziv. Stavolta guardavamo le sue di pecore, delle sculturette in resina epossidica, dai colori traslucidi. Pop never die che impegna il giusto. L’artista ci racconta di essere una delle poche dalle sue parti, se non l’unica, a lavorare la resina epossidica; della difficoltà e di come ci sia arrivata dopo esperienze con la ceramica. Superate le questioni tecniche, il succo del discorso passa alla pecora come icona della tranquillità, dall’accondiscendenza a testa bassa. Lei le ha voluto ridare l’orgoglio. «The proud sheep» ci dice di ricordare, nonché di scrivere. Accettiamo l’invito: dare una smossa a qualche cliché è un’idea che ci piace.

Queste pecore israeliane sono talmente orgogliose da non mollare la scena. Tornano, tangenzialmente, per un cameo in una versione di paesaggio fisico – barra – sociale. Se il buongiorno si vede dal mattino (pare che nessuno abbia voglia di spenderci più di una manciata di secondi), prevediamo che pochi si fileranno gli 8 minuti di video di Shani Avivi. Peccato, perché il rapporto tra testo (da catalogo dovrebbe esserci anche l’audio, tuttavia non pervenuto) e inquadrature indovinate restituisce tutta la fatica mentale/anti-bucolica dell’essere e crescere donna, in un contesto apertamente bucolico.

Contesto diametralmente opposto all’urbanità ritratta da Michal Servadio Ilan, intervento mixed media più conforme al gradimento del pubblico, come anche altri presenti. Se l’idea di fondo è fare scelte curatoriali mirate a non banalizzare il tema, certe dinamiche sono incontrovertibili.

Israel landscape – Shani Avivi – Her way – courtesy l’artista e Museo di Villa Croce

La pluralità del paesaggio israeliano

«Abbiamo scelto artisti validi qualitativamente, ma che rappresentassero anche le varie etnie», ha aggiunto Tedeschi nel suo intervento. Israel Landscape infatti sintetizza nello stesso spazio-tempo frammenti di una terra che, come altre d’altronde, non può essere rappresentata da un’immagine unitaria. Volendo dar fondo a tutta la stucchevolezza critico-lessicale di oggidì, potremmo definirla un “caleidoscopio”. Ma com’è che sbraitava tal habitué dei salotti televisivi? “Io aborro”.

Complice il trasloco a Villa Croce, con un display dal ritmo “serrato” (no, non riattacchiamo sull’allestimento, promesso), indichiamo un termine più veritiero e meno affascinante: disomogenea. Dove non c’è omogeneità non c’è standard, dove non c’è standard c’è sicuramente pluralità.

Ed è una pluralità pronta a togliere l’equilibrio. Non ci si fa male, ma si barcolla dalle bellissime vedute – senza tempo – delle Gerusalemme e Tel Aviv di Zavi Apfelbaum, all’accademicità – con relativi segni del tempo – di Eti Yacoby. Dalle palme iconiche di Suly Bornstein Wolff, a un utilizzo dell’acquarello che assume due pesi e due misure: velocissimo nelle Tel Aviv faces di Ami Shinar, introspettivo nel Mediterraneo secondo Adam Leef.

Nato in Israele da famiglia polacca, David Gernstein offre l’installazione più riuscita e convincente per una mostra in piena era social: un pitto-bassorilievo che sa di scatto appena “postato”. Che poi, tra moduli di allumino componibili e origini non autoctone (polacche) dell’autore, questo lavoro concentra in sé la perfetta metafora dell’Israele composita – sul piano artistico, culturale ed etnico – inquadrata dai curatori.

Folgorazione sulla via di Damasco: sotto questo punto di vista, ma solo sotto questo, l’affastellamento stile horror vacui improvvisamente ha pure un suo perché.

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