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Ritrovare l’infanzia nel disegno: Petrit Halilaj rilegge Alberto Giacometti
Arte contemporanea
Nel saggio Infanzia e storia (1978), Giorgio Agamben distingue tra “lingua” e “parola”: la prima rappresenta l’espressione prelinguistica del bambino, fatta di suoni e gesti incoerenti; la seconda, invece, è la comunicazione strutturata dell’adulto, che impone un ordine alla libertà espressiva infantile. Speculando entro questi limiti teorici, il disegno – inteso anche come gioco – può essere considerato una forma espressiva linguistica priva di confini, limitata solo dalla fantasia di chi lo produce. È proprio nel disegno che risiede l’impulso originario della mostra Nous construisions un fantastique palais la nuit… – Abbiamo costruito un palazzo fantastico durante la notte… -, personale di Petrit Halilaj in corso all’Istituto Giacometti di Parigi fino all’8 giugno.
A partire da questo gesto primario, la mostra si sviluppa come un dialogo tra l’universo immaginativo dell’artista kosovaro e l’opera di Alberto Giacometti, attraverso un intreccio di sculture e installazioni. Molti dei lavori in metallo di Halilaj, prodotti appositamente per l’occasione, sono infatti trasposizioni tridimensionali di disegni realizzati da Giacometti e da suo nipote Silvio, configurandosi come un ponte simbolico tra l’espressività infantile e la maturazione formale dell’arte.

Una piccola mostra per due grandi artisti
Ne Il paese dei balocchi, secondo saggio contenuto in Infanzia e storia, Agamben esplora il legame tra gioco e tempo. Quest’ultimo varie le proprie qualità durante l’atto del giocare, accelera, lasciandosi percorre con più leggerezza. Non è un caso che la mostra si apra con un espediente ludico: all’interno della ricostruzione dello studio di Giacometti, situata permanentemente vicino all’ingresso, sono mimetizzati cinque lavori dell’artista kosovaro. Questo meccanismo – indurre il visitatore al riconoscimento delle opere dell’artista ospite – introduce al dialogo tra Halilaj e Giacometti, la cui arte parla la stessa lingua, colmando istantaneamente l’intervallo di tempo che li separa.

Proseguendo verso la sala principale dell’Istituto, un disegno monumentale nello spazio, ispirato al The Palace at 4 a.m. (1932) di Giacometti, costituisce l’impalcatura per associare momenti e idee non correlati, creando connessioni tra diverse opere storiche: Couple (1926), Mother and daughter (1933), Apollo (1929). Halilaj riflette attraverso quella forma precaria: «[…] è il filo conduttore tra tutte le case in cui ho vissuto, che la mia famiglia e io abbiamo perso o dovuto lasciare, e che abbiamo cercato di ricostruire: quella a Runik [Kosovo] dopo la guerra, poi, nel 2010, la casa di famiglia a Pristina. Per questa mostra, l’idea di costruire un palazzo da sogno in cui vivere mi è venuta subito in mente».

Nel lavoro di Petrit Halilaj, molte opere utilizzano disegni infantili ingranditi a proporzioni quasi gigantesche. In quello di Giacometti, la scala delle opere è una caratteristica essenziale. Tra il 1958 e il 1961, affrontò difficoltà nel realizzare sculture di grandi dimensioni per la Chase Manhattan Plaza a New York. Come si evince dai progetti dei monumenti per gli eroi della Resistenza (Rol Tanguy, Gabriel Péri), Giacometti trasmetteva la grandezza degli uomini in una forma di umiltà e in formati modesti. Per lui, come per Halilaj, tutta l’intensità dell’esistenza umana può essere espressa nella scala delle piccole opere.

Rifondare la possibilità di fare esperienza
Il disegno, come comunicazione prelinguistica durante l’infanzia, trova un nuovo spazio esistenziale all’interno della realtà tramite la pratica artistica. Halilaj “traduce” i disegni di Giacometti, in un approccio che rifonda la possibilità di fare esperienza. Secondo Agamben, questa possibilità dipende dalla rifondazione di quella condizione linguistica dell’infanzia, intesa non come un idillio di innocenza ma come potenzialità che precede il passaggio dalla “lingua” alla “parola”, dall’infanzia all’età adulta. Giacometti stesso non riteneva che i bambini fossero innocenti ma riconosceva nel loro sguardo una forma di autenticità.
Il disegno può diventare, dunque, la cristallizzazione di una scheggia della nostra infanzia e Halilaj ci dimostra che, attraversato dalle energie che lui vi infonde, può risultare ancora fertile, pronto a essere reidratato. Così come i traumi dell’infanzia persistono nell’età adulta, riverberandosi nelle nostre relazioni, limitandole o alimentandole, allo stesso modo i sogni e le fantasie di quei tempi remoti non andrebbero interrogati esclusivamente nella speranza di accedere a una realtà più lieve – che forse non esiste. Gli amori infantili, le ambizioni smisurate e gli echi del passato, possono essere utilizzati come punto d’accesso per una condizione di apertura al mondo, capace di restituirci, ancora una volta, le possibilità dell’esperienza.