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«Secondo le proprie possibilità e la propria scelta» / 1 maggio
Arte contemporanea
Non è specificatamente una celebrazione dell’1 maggio, eppure il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo è storicamente riconosciuto come un’icona delle lotte sociali e delle rivendicazioni dei lavoratori di fine ‘800 e inizio ‘900. Un corteo di lavoratori avanza con determinazione, rivendicando i propri diritti, ed esalta la dignità del lavoro e la forza collettiva nell’aspirazione a una società più giusta. Ma cosa è giusto? Giusto è attuale? E i lavoratori, oggi, avanzano ancora esaltando la dignità del lavoro?


NO, (dal No Global Tour di Santiago Sierra), verrebbe da dire guardando a un’opera come 3000 Buchi ciascuno di 180 x 50 x50cm che l’artista madrileno ha realizzato nel luglio 2002 a Cadiz, in Spagna, in un terreno situato di fronte alle coste del Marocco, facendo scavare con delle pale a lavoratori giornalieri di origine africana (prevalentemente senegalesi, in minor numero marocchini) 3000 buchi delle dimensioni indicate per 54€ al giorno per 8 ore di lavoro. NO viene anche da dire ricordando l’anziana signora rimasta seduta su uno sgabello con la faccia rivolta al muro, per un’ora, con un cappuccio nera di iuta in testa, a Venezia, quando nel 2003 Sierra fu chiamato a rappresentare la Spagna alla Biennale di Venezia. Punizione, umiliazione, sfruttamento: Santiago sempre rispecchia i mutamenti nel mercato del lavoro e mette in scena lo sfruttamento delle persone, e non è il solo. Nel 2012, a maggio, sulla parete laterale di un negozio Poundland a Wood Green nella città di Londra, compare un bambino inginocchiato davanti a una macchina da cucire impegnato ad assemblare bandiere inglesi (Slave Labour): è così che Bansky ha voluto denunciare l’uso dei laboratori che sfruttano la manodopera minorile.



Sempre a maggio, sempre nel 2012, un migliaio di borse della spesa in cotone, che oggi vengono prodotte a milioni come alternativa accettabile alle borse di plastica, sono state distribuite gratuitamente al mercato artigianale mensile di St Catherine e al mercato delle pulci di Frome. Su ciascuna borsa compariva la scritta Capitalism Kills Love: l’azione, di Claire Fontaine, era un gesto sovversivo? Ironico? Forse l’uno, forse l’altro, del resto già Olav Velthuis in Imaginary Economics aveva portato alla nostra attenzione le varie posizioni assunte dagli artisti rispetto ai meccanismi del lavoro e del mercato, evidenziando come certi si pongano in modo critico riguardo al sistema economico, mentre altri assumono una posizione del tutto affermativa, giungendo infine a quelli che propendono per un atteggiamento ludico.
Al di là di chi ha messo in vendita su eBay tutti i propri averi (John Freyer, All My Life for Sale) e chi invece ha messo in discussione le nozioni convenzionali di economia e valore (J.S.G. Boggs riproduceva a mano banconote che poi tentava di spendere come denaro reale), tanti sono gli artisti che hanno posto l’attenzione sulle condizioni anche estreme del lavoro precario e sul coinvolgimento di comunità marginalizzate. Così JR, per esempio, quando ha ricevuto il premio TED, ha avviato un progetto artistico globale, Inside Out Project – «Vorrei che vi batteste per ciò che vi sta a cuore partecipando a un progetto artistico globale, e insieme trasformeremo il mondo… INSIDE OUT» – a cui chiunque può partecipare usando ritratti fotografici per condividere le storie, anche del loro lavoro e delle loro lotte per la giustizia sociale, o le immagini non raccontate delle persone nelle loro comunità. Oppure Sebastião Salgado, suo è Workers: An Archaeology of the Industrial Age, un libro che raccoglie 350 fotografie in bianco e nero in tributo alla fatica e al lavoro dell’uomo dall’età della pietra ai giorni nostri.




Se JR e Salgado, ciascuno a modo proprio, hanno avviato un’operazione documentaria testimone di come lo spirito umano sappia prevalere sulle condizioni sociali, ambientali e lavorative più estreme e difficili, c’è anche chi come Andreas Gursky ha ritratto ambienti di lavoro industriali o uffici con una prospettiva distaccata, evidenziando serialità e anonimato, o chi come Jeff Wall nelle sue istantanee ha catturato momenti di fatica fisica e anche psicologica del lavoro quotidiano. E non mancano all’appello nomi come Martha Rosler, che ha approfonditamente indagato i cambiamenti nel mondo del lavoro e le condizioni dei lavoratori; o Susan Meiselas, che con la sua fotografia documentaria ha esplorato le forme di lavoro di diverse comunità.
Molte delle prime opere di Gursky si concentrano su stabilimenti industriali, ma ci sono anche opere che illustrano l’attività e la complessa organizzazione dei mercati globali (Chicago Board of Trade), fotografie di supermercati (99 Cent) che offrono una riflessione sulla cultura del consumo, e poi c’è la più recente Amazon, che evidenzia la logistica contemporanea. Tra le opere di Wall invece Volunteer ritrae un uomo che pulisce un fifugio per senzatetto di notte, evocando il tema del lavoro umile, e Morning Cleaning, Mies van Der Rohe Foundation, Barcelona ci mostra una persona intenta a pulire gli iconisci spazi della Fondaizone Mies van Der Rohe, suggerendo una riflessione sul lavoro necessario. E poi c’è Invisible Labor, la serie con cui Rosler mette in luce forme di lavoro non riconosciute o svalutate nella narrazione economica dominante, ma anche North American Waitress, Coffe Shop Variety, che si concentra sul lavoro delle cameriere nei caffè. Questa serie di Rosler, che indaga il servizio come forma di lavoro e le interazioni tra lavoratrici e clineti, esplora anche dinamiche di genere, come pur Meiselas ha esplorato nella serie Carnival Strippers, per esempio, uno dei suoi lavori più noti, dedicato alle donne che lavorano come spogliarelliste nelle fiere del New England, sul palco e fuori dal palco.





Ci sono poi artisti che indagano il tema del lavoro con un approccio critico che intreccia questioni di spazio, genere, architettura e potere (Monica Bonvicini, per esempio), o che si concentra sulle tracce del lavoro, sugli oggetti che lo rappresentano o sui contesti in cui si svolge, come Flavio Favelli, che negli anni ha riutilizzato e trasformato oggetti e mobili di uffici, materiali e forme provenienti dal mondo dell’artigianato e numerose insegne di attività commerciali: «Da qualche anno ho preso uno spazio sui viali che ho chiamato Jugopetrol, per via di una grande insegna recuperata in Montenegro» ci aveva raccontato tempo fa in occasione dell’apertura dello spazio con una mostra in cui aveva invitato due artisti, tra cui Igor Grubić, che negli anni ha realizzato importanti opere dedicate al tema del lavoro. How Steel Was Temperd, per esempio, è una delle sue opere più iconiche sul tema del lavoro e si sviluppa attraverso fotografie e video che documentano la chiusura e l’abbandono di grandi complessi industriali in Croazia, un tempo simboli di potere e di prosperità del sistema socialista, riflettendo sulla perdita di posti di lavoro e sulla trasformazione dell’identità dei posti di lavoro.



Nel carosello di immagini che abbiamo attraversando non può mancare Spaccapietre, il film di Gianluca e Massimiliano De Serio che affronta il tema del lavoro raccontando la storia di un uomo che perde il lavoro a causa di un incidente. Datata 2020, l’opera è quantomai attuale se si considerano i dati provvisori dell’Inail riferiti ai primi due mesi del 2025: parlano di 138 denunce di infortunio mortale, il 16% in più dello stesso periodo nel 2024. Morti e incidenti sembrano aumentare più dell’occupazione, ma il lavoro non era un diritto?
La nostra Costituzione all’articolo 4 sancisce che «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società», e Primo Levi, con il libro La chiave a stella, ci ha lasciato in eredità questa riflessione: «l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono. Questa sconfinata regione, la regione del rusco, del boulot, del job, insomma del lavoro quotidiano, è meno nota dell’Antartide, e per un triste e misterioso fenomeno avviene che ne parlano di più, e con più clamore, proprio coloro che meno l’hanno percorsa». E, ancora, «È malinconicamente vero che molti lavori non sono amabili, ma è nocivo scendere in campo carichi di odio preconcetto: chi lo fa, si condanna per la vita a odiare non solo il lavoro, ma se stesso e il mondo. Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena, ma l’amore o rispettivamente l’odio per l’opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge».
Se la natura, le sfide e il significato del lavoro fossero allineate affinché ognuno potesse amare il proprio lavoro, allora sì che i lavoratori, ancora oggi, potrebbero avanzare esaltando la dignità del lavoro. L’1 maggio e tutti gli altri giorni. Buona festa del lavoro, lavoratori di ieri, di oggi e di domani.
