17 aprile 2022

Zoom Biennale #1: intervista a Cecilia Alemani

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“Il latte dei sogni” raccontato dalla curatrice della 59ma Esposizione Internazionale d'Arte di Venezia, Cecilia Alemani, a poche ore dall'opening

Cecilia Alemani, Photo by Andrea Avezzù, Courtesy La Biennale di Venezia

Dal 2011, Direttrice e Chief Curator del programma Arte della High Line di New York, curatrice del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia del 2017 e Direttrice Artistica della prima edizione di Art Basel Cities a Buenos Aires, nel 2018, Cecilia Alemani ci racconta la sua 59ma Biennale d’Arte, “Il latte dei sogni”

Mi ha molto colpito una tua affermazione, durante la conferenza stampa: hai dichiarato che – con gli artisti – c’è stata una conversazione molto intimistica, come spesso accade tra perfetti sconosciuti, che d’un tratto si ritrovano a condividere le proprie storie più private. Pensi (e desideri) che questo aspetto sia “visibile” anche nel “Latte dei sogni”?
Questi due anni di lavoro sono stati incredibili: ho vissuto le contraddizioni che hanno vissuto tutti, la condizione schizofrenica di poter abbattere le distanze grazie alla tecnologia, ma allo stesso tempo di non poter avere il contatto fisico con le persone e le cose. Come tutti non ho potuto viaggiare, conoscere nuovi artisti in luoghi per me lontani, come Giappone, India, Cina… Durante la fase di studio e ricerca, dalla mia stanza a New York ho potuto incontrare centinaia di artiste e artisti via Zoom. Con loro è vero, ci sono state anche conversazioni intime, con uno strano senso di intimità da fine del mondo. Da questo dialogo si sono imposte tante domande sulla situazione. Come sta cambiando la definizione di umano? Quali sono le differenze che separano il vegetale, l’animale, l’umano e il non umano? Quali sono le nostre responsabilità nei confronti dei nostri simili, delle altre forme di vita e del pianeta che abitiamo? E come sarebbe la vita senza di noi? Da qui è nata la mostra, e sì, credo che in una certa misura questo senso di urgenza e di intimità che gli artisti mi hanno trasmesso in mostra sarà presente.

Quanto questo “pesante presente” ha influito nelle nuove ottanta produzioni realizzate in occasione della 59a Biennale?
Ha avuto sicuramente un peso, non c’è dubbio. Non vorrei però entrare nel merito delle singole nuove produzioni, di come abbiano “risposto” al presente, alla situazione della pandemia ecc. Non vorrei creare categorie e soprattutto non vorrei incasellarle e congelarle rispetto a un momento che già oggi sembra essere lontano anni luce, essendoci altre urgenze. In generale non mi interessa tanto quel tipo di mostra in cui i partecipanti denunciano in modo diretto e quasi documentaristico i problemi di oggi, ad esempio il cambiamento climatico o la situazione politica globale. Ci sono tanti artisti e artiste che stanno facendo un lavoro di denuncia sociale importante, ma in modo obliquo, complesso, senza dover necessariamente essere didascalici. Vorrei che si guardasse alla mostra come allo specchio di un tempo molto complesso, di una realtà in divenire che non abbiamo ancora capito come decodificare. Per questo è fondamentale anche lo sguardo all’indietro. Oltretutto, l’idea che la Biennale debba occuparsi solo del presente è un presupposto piuttosto recente. Se si guarda alla storia dell’Istituzione, è abbastanza evidente che sin dalla sua fondazione la Biennale ha guardato indietro e ha cercato di sistematizzare la storia dal punto di vista del presente e lo ha fatto soprattutto in tempi in cui il presente stesso rappresentava un territorio di contesa. Mai come in questi giorni, con le nuove drammatiche crisi che stanno minando lo scenario internazionale, la prospettiva storica può aiutarci a leggere in un modo diverso il presente. O semplicemente può aiutarci a trovare dei punti di riferimento.

Il Presidente della Biennale Roberto Cicutto con Cecilia Alemani, Photo Andrea Avezzu, Courtesy of La Biennale di Venezia

Sono curioso di conoscere il tuo “metodo”: dal momento della tua nomina, quali sono stati i primi passi? Hai optato per la scrittura e dunque per una definizione del progetto più teorico o, al contrario, avevi già in mente opere e artisti, ai quali poi si sono aggiunti nomi e idee?
Sono stata nominata a gennaio del 2020. A marzo è scoppiata la pandemia. A maggio si è deciso di posticipare la Biennale al 2022. A quel punto, ho messo in pausa il tema e le idee che avevo avuto fino a quel momento e mi sono concentrata a parlare con le artiste e gli artisti. Già all’inizio avevo in testa per la mostra l’idea della metamorfosi, un concetto a me caro ma presente nell’arte da millenni. La trasformazione del corpo simboleggia tanti cambiamenti. Dopo centinaia di confronti con gli artisti e studio visit su ZOOM, questo tema ha proiettato radici più ampie, incrociando il rapporto con la natura, gli animali, il non umano. Diventeremo tutti postumani? Come sarà un mondo fatto di relazioni più simbiotiche con altre forme di vita? Queste sono state le domande di partenza. Il resto è venuto di conseguenza.

Come rispondi all’obiezione di aver costruito una biennale “politicamente corretta” con una maggioranza di artiste donne e che lascia ampio spazio alla fluidità di genere e ad una visione “non-binaria”?
Non sono particolarmente interessata a questa obiezione, il “politically correct” è una stortura dei nostri tempi. Tuttavia, lavorando negli Stati Uniti da vent’anni è un problema a cui si pensa in automatico. Quello che ho imparato in questi ultimi tempi è che certe metodologie censorie contrastano con la creatività dell’arte, ma producono risultati in termini di integrazione che faranno bene a tutti nel lungo termine. L’America è estrema: deve passare per il bianco o il nero. Ma una mostra non può essere fatta di percentuali. Si deve partire sempre dalle opere e dalla loro relazione con lo spazio. La statistica non porta a niente. Tornando al “Latte dei sogni”, sono consapevole che dopo aver svelato la lista degli artisti è cominciata a girare la voce che questa sarà “la Biennale delle donne”, e mi viene da sorridere… Nessuno si è mai sognato di chiamare 127 anni di mostre che erano per il 90% maschili “le Biennali degli uomini”. Apparentemente, solo gli uomini/maschi hanno il lusso di essere considerati una categoria universale.

Biennale di Venezia 1978, Materializzazione del Linguaggio – Paolo Cortese Gallery

Ci puoi raccontare dell’idea che lega “Il latte dei sogni” con la mostra “Materializzazione del Linguaggio” che Mirella Bentivoglio aveva curato per la Biennale del 1978?
È una mostra che ha ispirato, e in qualche modo è al centro di una delle capsule del tempo, la terza che si incontrerà al Padiglione Centrale, dal titolo “Corpo Orbita”, che raccoglie artiste e scrittrici che nel diciannovesimo e ventesimo secolo utilizzano forme espanse di linguaggio come strumenti di emancipazione. La mostra di Mirella Bentivoglio per la Biennale del 1978 ai Magazzini del Sale radunava 80 artiste, esclusivamente donne, che lavoravano con la poesia visiva e la poesia concreta. Alcune di queste artiste sono presenti anche nella mia capsula del tempo, come Tommasa Binga, la stessa Mirella Bentivoglio, Yves Garnier e Mary Ellen Solt. Ecco, queste artiste nelle loro opere di poesia concreta cercano di decostruire la linearità del linguaggio spezzando proprio le frasi tradizionali e occupando la pagina in modo più fisico e materiale. La figura di Mirella Bentivoglio mi permette anche di riallacciarmi al tema del politicamente corretto: la stessa Bentivoglio diceva, parafrasando, “Normalmente io sono l’unica donna invitata nel mondo degli uomini. Voglio far capire ai colleghi che in realtà non ci sono solo io”. È proprio questo il punto: avere la possibilità di studiare e ragionare su quest’argomento, aprire un dibattito costruttivo e impegnato.

La Biennale

Se “Il latte dei sogni” teorizza – e mette in mostra – una fine dell’arte “antropocentrica”, quale arte dobbiamo immaginarci nel prossimo futuro? 
Non ho la sfera di cristallo, ma partiamo dall’osservazione del presente con uno sguardo più allargato rispetto a quello a cui siamo stati abituati: a tutte le latitudini c’è un fermento creativo di artisti che stanno mettendo in crisi la figura dell’uomo come fulcro dell’universo. La relazione tra l’uomo e ciò che lo circonda, la natura, gli animali, altre forme non vive, è un tema centrale del nostro tempo, oltre che della mostra: dobbiamo fare lo sforzo di immaginare un mondo e un futuro dove non siamo più al centro di ogni cosa, ma in una relazione simbiotica con il pianeta.

È (o sarà) possibile un’arte senza poietica – intesa come spinta creativa dello spirito umano partendo dalle idee o dai sentimenti -, realizzata da corpi-macchine, da intelligenze artificiali?
È una possibilità. Anche qui, non voglio e non posso fare previsioni, non è il mio compito, ma pensiamo alle recenti evoluzioni, molte delle quali ci toccano davvero da vicino senza che ce ne rendiamo conto: quando chiediamo a Siri o ad Alexa di trovarci un numero di telefono o di mettere delle musica, stiamo delegando delle azioni a un’intelligenza artificiale, che si sviluppa, si raffina, cresce processando le moltitudini di informazioni che le diamo in pasto. Ci sono già diversi esempi di intelligenze artificiali applicate in campo creativo. Diciamo che la sfida è grande: il mondo appare drammaticamente diviso tra ottimismo tecnologico — che promette il perfezionamento all’infinito del corpo umano attraverso la scienza — e lo spettro di una totale conquista del controllo da parte delle macchine attraverso l’automazione e l’intelligenza artificiale. Bisogna misurarsi con questo conflitto.

Post Human al Castello di Rivoli

Rispetto al “cyborg” di Donna Haraway o al Post-Human identificato da Jeffrey Deitch nei primi anni ’90, messo in luce con l’omonima mostra nel 1992, che tipo di evoluzione c’è stata nel corso di questi trent’anni? 
La mostra di Jeffrey Deitch e le teorie di Donna Haraway sono una pietra miliare per i temi del cyborg e del postumano. Ovviamente c’è stata un’evoluzione in questi trent’anni, le istanze di inizio anni Novanta hanno significati diversi rispetto a quelle degli anni 2000 o quelle di oggi. Personalmente sono molto interessata al postumano proposto dalla filosofa italiana Rosi Braidotti, radicato nell’eredità delle teorie femministe, della decostruzione, degli studi postcoloniali e dei nuovi materialismi; che è interessato a sfidare la comprensione dell’umano come l’uomo universale (europeo) della Ragione (con la lettera maiuscola) e a decentrare l’umano dall'”alto” dell’esistenza in relazione al non umano.

Spesso c’è il vizio di osservare la tecnologica e i suoi effetti sulla vita umana in maniera pessimistica, mentre l’arte ne sta esplorando, sempre più concretamente, i limiti e le possibilità. “Il latte dei sogni” si pone in maniera aperta rispetto a questa questione, o sbaglio?
Assolutamente sì. Si pone in maniera aperta ma cerca anche di problematizzare in modo ampio il rapporto con la tecnologia: pensiamo a come negli ultimi due anni è mutato a tutti i livelli il rapporto con la tecnologia, nel bene e nel male. La mostra vuole riflettere proprio su queste più recenti evoluzioni e contraddizione, a partire dall’ottimismo dell’epoca pre-Covid, quando si pensava che la scienza potesse spingere il corpo oltre i suoi limiti, e allo stesso tempo si temeva l’automatizzazione. Un dualismo che la pandemia ha esacerbato: da un lato ci siamo accorti di essere più che mortali, dall’altro la tecnologia è diventata a un certo punto l’unico modo per condividere le emozioni.

Scrivi: “Le capsule tematiche arricchiscono la Biennale con un approccio trans-storico e trasversale che traccia somiglianze ed eredità tra metodologie e pratiche artistiche simili (…) una storiografia che procede non per filiazioni e conflitti ma per rapporti simbiotici, simpatie e sorellanze”. É una Biennale anche a favore della “decostruzione” del concetto di museo? 
Dipende da come si intende il ruolo e la missione del museo. Dal mio punto di vista i musei non sono – o non dovrebbero essere – luoghi statici, ma organismi dinamici, che rileggono costantemente il loro patrimonio, le loro collezioni, e il loro rapporto con le comunità a cui si rivolgono. Se diventano statici si trasformano in cimiteri. Allargando la riflessioni, la storia è sempre riscritta dalla prospettiva del presente e ogni nuova generazione artistica cerca i propri antecedenti rivisitando e reinventando il passato. Ho pensato al “Latte dei sogni” come a un palinsesto che ci ricorda che non esiste mai una storia oggettiva e che ogni narrazione si sviluppa da un particolare punto di vista. Le varie capsule tematiche che attraversano la mostra si soffermano su vari momenti nella storia dell’arte del Novecento e, in alcuni casi, sulla storia stessa della Biennale, per raccontare storie purtroppo non ancora assimilate nei canoni ufficiali. La mostra così è attraversata dalla presenza del passato, ma necessariamente in relazione alla contemporaneità.

Per la prima volta dopo moltissimi anni c’è un’ampia partecipazione di artiste e artisti italiani, il che significa anche un riconoscimento – a volte tardivo – del valore della ricerca nel nostro Paese. Perché, per molti anni – secondo il tuo punto di vista – c’è stata quasi una chiusura da parte delle nostre stesse istituzioni?
Non posso rispondere per quello che è stato in passato. Posso solo dire che da italiana ho sentito la responsabilità della loro presenza. Oltre alle figure storiche – conosciute o da rivalutare – ho invitato artisti più giovani come Giulia Cenci, Sara Enrico, Diego Marcon, Elisa Giardina Papa, Chiara Enzo. Ho dato loro spazio e visibilità perché li meritano. Spero che per loro questa partecipazione apra nuove opportunità.

High Line, New York

Infine, il pubblico è una parte fondamentale alla Biennale di Venezia: che risposta ti aspetti?
Quello del pubblico è un tema che mi sta davvero molto a cuore, anche per l’esperienza di direzione della High Line di New York, che ogni anno è attraversata da 8 milioni di persone. Spero che i visitatori vengano numerosi, che vengano pubblici diversi, di tutte le età: ho un grande rispetto per loro, sento una grande responsabilità. Alla fine una mostra come la Biennale deve poter parlare a tutti, anche delle cose più complesse: a prescindere da tutto, i visitatori devono poter avere una relazione con le opere, questo penso che sia uno dei punti cruciali del successo di una mostra, quando può creare un legame con un pubblico vastissimo e di tutte le età, indipendentemente da quello che uno sa prima di varcare i cancelli. Per cui vorrei che i visitatori vedessero una grande mostra come non se ne sono fatte in due anni per la pandemia. Vorrei che entrassero in comunicazione con le opere prodotte per la mostra e in parallelo mi piacerebbe che le opere di ieri riuscissero a raccontare storie meno note che pure hanno influenzato quello che guardiamo oggi. Me lo auguro davvero, ho lavorato molto pensando anche a questo obiettivo.

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