07 aprile 2021

Sono MONOtono e me ne vanto! Parola di Freak Antoni

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Separare la performance dalla vita? Un performer onesto, ma ancor più un artista totale, non lo può fare. L'esempio tutto italiano di Freak Antoni, tutt'altro che ludico e alla riscoperta dello strumento del sé

Freak Antoni

Nei canali sotterranei della scena performatica italiana degli anni ‘70 scorreva – checché se ne andasse dicendo in quelle consumate stagioni di non luoghi della sottocultura e del dilettantismo ortodosso – ben poca linfa di efficace confronto, se non proprio vetero rivoluzionaria e a tratti punk. Cercarne le ragioni, può essere solo triste opera di un impareggiabile termine di paragone, ma certo sicuramente riconoscibile se solo si guarda nelle direzioni della miseria culturale: la diseducazione alla vera performance, la confusione creata dai “Mastro Fuffa” (che nel nostro quotidiano artistico si presentano come frontman del trash) e il ghetto del professionismo coprono la memoria dello spettacolo autentico. Non c’è da sorprendersi se, in un certo clima di risveglio, qualche ricordo del ‘77 bolognese può riferirsi ancora all’ambiente di formazione a sinistra di Vasco Rossi e a destra di Toto Cutugno, da parte del Robespierre del rock italiano o del Big Jim della sottocultura, con la sua incorreggibile maschera da dileggio. Questa immagine di sempiterno giovane musicista e performer, «Signore e Signori, Ladies and Gentlemen», è stato storicamente aggiudicato a Freak Antoni, detto anche «Astro Vitelli, Beppe Starnazza, Tony Garbato».

Roberto Antoni è stato un celebre dilettante, scrittore, attore, artista performativo, poeta e DJ italiano, fondatore e leader degli Skiantos, padre del demenziale italiano, del sarcasmo beffardo e insidioso all’estremo del pre-trash militante e anticipatore di una certa estetica neo-emulativa, perseguita poi da Tommaso Labranca. Anzi oserei direi che il vero maestro di Labranca fu lui: il “Freak” più “Out” di tutti. Roberto è stato tuttavia un musicista-performer, che ha rifiutato sempre l’etichetta condizionante del solista di carriera: colto ma dall’immagine incolta, politicizzato ma dalla figura di istrionesco pagliaccio, attivissimo ma incorreggibilmente effimero, era ben cosciente di come una certa immagine lo potesse allontanare pericolosamente dal vivere la muzak, come la chiamerebbero gli sbullonati degli anni Settanta. Per questo, accanto alle tecniche della performazione neo-dada, ci proponeva quelle dell’apologia della demenza mediale. Si è cimentato «nel Mastrolindo della retorica, nell’Attila del savoir-faire, nel Messner dell’underground», fino a ridare spazio alle maschere che sbeffeggiavano il professionismo e il populismo italiota.

Kinotto, Skiantos

Le tappe della sua breve e brillantissima ascesa, provenendo da una formazione di perito agrario, scoppiano nell’iscrizione al Dams di Bologna, per poi fondare nel 1976 un gruppo rock chiamato Demenza Precoce. Nel 1977 gli Skiantos pubblicano Inascoltable e nel 1978, con l’aiuto della Cramps Records, pubblicano il capolavoro MONOtono, considerato portavoce del movimento giovanile degli indiani metropolitani! Nel 1978, nella palazzina di Milano occupata da Dario Fo, fanno un concerto per la promozione de Il Male e nel 1979 si inseriscono nell’onda internazionale della New Wave con Kinotto. All’epoca di Kinotto e della sua promozione, ricordo che il 2 aprile del 1979, durante il Bologna Rock la band porta in scena una cucina, un tavolo, un televisore e un frigo e, invece di suonare, Freak Antoni si mise a cucinare e mangiare degli spaghetti, confermandoci l’estrazione da Cabaret Voltaire. Ben presto gli Skiantos si divisero: fu la scelta di presentare Fagioli alle selezioni del Festival di Sanremo 1980 a determinare la fuoriuscita del cantante dal gruppo, che negli anni successivi si dedicò ad altri progetti, tra i quali Beppe Starnazza e i Vortici, L’incontentabile Freak Antoni e ad esprimere il suo lato più satirico e letterario.

Freak Antoni

Quel che mi pare davvero impossibile è separare la performance dalla vita: sia chiaro, si può fare ed anzi si fa, con grande disinvoltura in buona parte delle speculazioni artistiche contemporanee; ma tale elusione, a mio avviso, ha bisogno di uno scarto di coscienza, effettuato alla radice del proprio essere espressivi. Un performer onesto, ma ancor più un artista totale, non lo può fare, a meno di rocambolesche invenzioni neo-punk e neo-dada che sfidano la morale, per frammentarsi in infinite piccole (meschine, quanto più esteticamente graziose ed accomodanti) morali provvisorie, palliativi definitori e mascheranti. Eppure, gran parte dei sistemi elaborati dallo spettacolo contemporaneo, così come anche molte produzioni artistiche di questo nuovo secolo, tentano di eludere tale vincolo (che poi, più che un vincolo, a parer mio, è una condizione), prendendo in esame una specie di fare comico dal rapporto con essa, oppure fantasticando sulla genesi di un tempo che, cavalcando l’assurdo, si trasforma in una specie di biografia apportatrice di sarcasmo, invettiva, emanazione di sberleffi e provocazioni da un qualcosa di non ben definito. Questi sono due modi di affrontare il provocatorio mondo performativo, e di perdere di vista l’immagine autenticamente e primigeniamente data dallo spettacolo. Sono due tentativi a dir poco maldestri, di eludere lo stereotipo, che divarica la noia dalla finta del gesto estremo. Si bara con se stessi, si bara con ogni onesta concezione dell’arte, solo se si è in grado di riconoscere che ci si chiama Beppe Starnazza, o I Vortici di Freak Antoni. La storia e la messa in scena della catastrofe di se stessi, lo dico senza remore, è negazione di ogni principio artistico, è il luogo dell’esasperazione Dada, dell’anticipazione di un fare arte (burlonesco e irriverente) alla Maurizio Cattelan: così qualcuno ha pensato che potesse essere la prognosi definitiva del dilettante, mentre è il fondamento privilegiato di una demenza che attende la corona di spine, per autolegittimarsi in pura e semplice demenzialità.

Dal suo simpaticissimo scritto sui Beatles, che risale al 1979, Roberto Antoni si presenta con una veste letteraria del tutto inedita. Il libro più pungente della serie che ne consegue è quello che porta il divertentissimo titolo di: Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti (seguirà il dibattito). La digressione dis-intellingente, per Roberto, corrisponde alla sua maturazione di musicista, ma soprattutto di letterato. Ma ciò che per il solista Antoni è occasione soprattutto per una spettacolare e gioiosa liberazione delle sue doti di cabarettista, per il Freak diventa invece un passo fondamentale verso l’autodeterminazione totale di compositore comico e improvvisatore di una poesia performatica e satirica. Una espressività più complessa e difficile, che assomma atteggiamenti tipici della musica improvvisata, della performance dissociata e del post-teatro esasperato verso una volontà di sprofondarsi nell’universo creativo del sarcasmo radicale; una ricerca di suoni, di immagini, di parole che sono contemporaneamente studio del gesto e rinnovazione dell’uso dello strumento del sempiterno “indiano metropolitano”. La gestualità letteraria e teatrale è, per il Roberto della non-intelligenza, un fatto tutt’altro che ludico, ma qualcosa che va a determinare l’impegno politico oltre che a costituire un rapporto diverso con l’alchimia della recitazione, che si svolge tramite processi indiretti verso la manifestazione di una parola superficiale, ma riflessiva. Antoni è il contrabbasso del sarcasmo, in tutti i modi possibili e impossibili, colpito e fatto vibrare in ogni sua parte, fino a far sciogliere nella gestualità la materia sonora, coagulata nella demenzialità dell’autore, che non partecipa ad alcuna intelligenza di massa. Ciò non implica la distruzione, ma piuttosto la totale riscoperta dello strumento del sé, del prolungamento del corpo-spettacolo, e quindi la più libera e disinibita esplorazione di questa stessa materia che si spinge al di là dell’intelligenza piatta, diventando insieme corpo dello spettatore e della sua parola.

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