24 giugno 2021

“Sonora Desert”: la performance di Muta Imago per Oceano Indiano

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La compagnia Muta Imago ci parla di “Sonora Desert”, performance esperienziale nata da una ricerca sul tempo e sviluppata per Oceano Indiano, programma di residenze del Teatro India di Roma

"Sonora Desert". La performance di Muta Imago per Oceano India.

Il Teatro India apre i suoi spazi alla creazione di Muta Imago, una delle compagnie residenti di Oceano Indiano. “Sonora Desert” è una coproduzione Muta Imago e Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Fondazione I Teatri Festival Aperto di Reggio Emilia in co-realizzazione con Romaeuropa Festival. Non un semplice spettacolo ma un’esperienza sensoriale nella quale lo spettatore è il protagonista assoluto.

Così, Muta Imago presenta il risultato di un lavoro sul tempo, con un’indagine sul rapporto tra percezione e stati di coscienza. Un viaggio al confine tra Arizona e Messico, nel Deserto di Sonora ha ispirato la produzione della compagnia teatrale. «Sonora Desert è un esperimento nel senso che la sua dimensione e il suo contenuto non sono definitivi, nel senso che assume forma e significati diversi per ognuno. È un esperimento in quanto è sguarnito e vulnerabile».

Mujer ángel, Desierto de Sonora, México, 1979. Immagine di Graciela Iturbide.

Muta Imago ha dato forma a un viaggio ideale creando un ambiente di vibrazioni sonore, luminose e cromatiche in dialogo con le musiche composte per l’occasione da Alvin Currain. “Sonora Desert” è un luogo immaginario in cui lo spettatore sperimenta una “dimensione liminale del sé”, il tempo e l’io si fondono in una scomparsa della scena. Claudia Sorace e Riccardo Fazi (Muta Imago) ci hanno raccontato qualcosa su “Sonora Desert”. Ci hanno parlato delle origini di questa performance, della loro esperienza in Oceano Indiano e dei prossimi appuntamenti.

“Oceano Indiano” è un progetto triennale di residenze artistiche del Teatro India di Roma. Insieme ad altre quattro compagnie, avete cominciato questa esperienza nel 2020. Dopo un anno, quali sono le vostre impressioni? Come avete arricchito la vostra pratica durante questo periodo?

Il 2020 è stato un anno particolare, per le ragioni che tutt_ conosciamo. Il lockdown è arrivato a Roma i primi giorni di marzo, lo ricordo bene perché eravamo al Teatro India a provare Sonora Desert e intorno alle 16:00 del pomeriggio ci dissero di lasciare tutto e tornare a casa. La scenografia, la sala, l’abbiamo poi ritrovata così com’era, “cristallizzata” nel tempo, tre mesi dopo, a giugno, quando siamo potuti tornare a Teatro. Nel frattempo, tutto era cambiato. Tutto ciò che come compagnie di Oceano Indiano avevamo immaginato, tutta la programmazione di eventi, incontri, performance che avrebbe dovuto dialogare con la programmazione ufficiale del Teatro India, non era potuto accadere e non aveva più senso farlo accadere “dopo”. Quel progetto, quella volontà e quel desiderio di incontro (tra artisti, tra compagnie e tra questi e la comunità degli spettatori e delle spettatrici) avevano infine preso la forma eterea e nomade di Radio India, il progetto radiofonico che dal chiuso delle nostre case, delle nostre stanze, ha raggiunto l’Italia intera. Come sempre, l’incontro vero può accadere solo su un terreno neutro: la radio ha rappresentato questo. Il futuro di Oceano Indiano, lo stiamo continuando a costruire giorno per giorno, facendolo dialogare con le nostre ricerche individuali e cercando di mantenere più alto possibile l’ascolto e la reazione ad una realtà in continua trasformazione.

“Sonora Desert” è il vostro nuovo lavoro – risultato appunto del progetto “Oceano Indiano” – che si inserisce nella programmazione del Teatro di Roma e che è anche un appuntamento d’anteprima del Romaeuropa Festival 2021. Un’esperienza percettiva, più che uno spettacolo, dal carattere installativo, musicale e performativo. Com’è nata l’idea di questo nuovo progetto e poi la collaborazione con Alvin Curran (che ha lavorato alle musiche originali)? Qual è stata la direzione che avete seguito durante il processo creativo?

Abbiamo lavorato su Sonora Desert per due anni. Ci è voluto molto, perché si tratta di un formato sul quale lavoriamo per la prima volta: la realizzazione di una performance dove il protagonista assoluto è lo spettatore e la sua esperienza percettiva. Non ci sono attori in Sonora Desert, non c’è scena né racconto, per come normalmente si possono intendere questi termini. Al centro del progetto c’è l’indagine sulla percezione del tempo che stiamo portando avanti in questi anni, declinata in relazione agli straordinari eventi che stiamo vivendo. Uno studio, che parte dalle ricerche svolte in America a cavallo degli anni ’50 e ’60 sul rapporto tra vibrazioni (cromatiche, sonore, luminose) e stati di coscienza, dialoga con l’immaginazione di un mondo svuotato dalla presenza umana, ma dove poter esperire un altro ordine del tempo. In tal senso il deserto è il luogo che contiene tutto ciò che rimane una volta che tutto è accaduto è, come dice Baudrillard, “uno spazio assoluto, un vuoto di senso”. In questo vuoto però la realtà di un mondo dove tutti i tempi convivono si manifesta in maniere inaspettate e meravigliose, in forma di roccia, insetto, agenti atmosferici, piante ancestrali. Per questo abbiamo scelto il deserto di Sonora come luogo immaginato dove possa prendere forma un mondo senza segni che possa lasciare ampio spazio al lavoro mnemonico e di immaginazione dello spettatore. Si parte dalle pagine del diario di un’ esplorazione nel deserto, e da lì parte il viaggio individuale di ognuno. Con Alvin abbiamo lavorato per sei mesi alla costruzione di una partitura sonora che riuscisse a muoversi lungo il delicato confine tra ciò che lavora su un piano cosciente e ciò che invece dialoga con la dimensione inconscia; un racconto fatto di suoni che fanno dialogare la memoria individuale con quella collettiva e archetipica, una composizione di vibrazioni che vuole avere un ruolo curativo e di scoperta per ogni spettatore, in opposizione alla paura più grande, quella della morte.

Dalla settimana scorsa, il vostro spettacolo non è andato in scena a causa di uno sciopero dei tecnici del teatro. “Sonora Desert” era già stato rimandato l’anno scorso, periodo per cui e in cui si è parlato oltremodo del concetto di resilienza. Cosa pensate di questa situazione?

Sì, Sonora Desert è stato uno dei tantissimi spettacoli rimandati a causa delle chiusure dei teatri avvenute a livello nazionale nel novembre del 2020. Per quanto riguarda il momento presente, al Teatro di Roma, con gli scioperi che ormai si protraggono da una decina di giorni e che hanno bloccato tutto il Teatro India, ci siamo trovati in mezzo ad una situazione che da una parte ci sovrasta, dall’altra ci riguarda, alla stessa maniera in cui riguarda tutt_ gli artisti e le artiste di questa città. La sensazione è che di nuovo, sia messa in pericolo la possibilità di dare spazio al futuro, di costruire narrazioni alternative a quella che alcuni continuano a volere come dominante. In questo senso riguarda tutte/i. Il concetto di resilienza non è un concetto che amiamo molto; in fondo, in quanto esseri umani, siamo tutti resilienti, è nella nostra natura. Il problema è che troppo spesso la resilienza si trasforma in adattamento, in accettazione dello status quo in nome della sopravvivenza. Ecco allora che un altro termine, forse oggi meno di moda, si affaccia alla mente: quello di resistenza. Nel frattempo, Sonora Desert continua a muoversi: dal 14 al 17 luglio saremo all’interno della bellissima programmazione del Festival di Santarcangelo, mentre in autunno siamo felici di tornare a Torino, al Festival delle Colline Torinesi (9-10 novembre).

Ritratto MUTA IMAGO (Riccardo Fazi e Claudia Sorace)

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