19 dicembre 2023

Artemisia Gentileschi a Palazzo Ducale di Genova: perché dobbiamo parlarne (male)

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La triste vicenda personale della nota pittrice sembra proprio attirare esposizioni in cui lo stupro viene spettacolorizzato fino a diventare pornografia del dolore, rubando la scena alla qualità artistica. Ecco perché questo modo di affrontare la narrazione è dannoso.

«Ciao Noemi, siamo Carolina e Valentina, due studentesse del corso di laurea magistrale di Storia dell’arte dell’Università di Genova. Con un sentire comune vorremmo segnalarti la problematicità della mostra Artemisia Gentileschi. Coraggio e passione di Palazzo Ducale a Genova». Ha inizio tutto qui, in un messaggio privato che ha raggiunto il mio profilo Instagram Etantebellecose appena undici giorni dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin. Nel messaggio si scrive di un letto macchiato di sangue, di racconti cruenti e di merchandising offensivo. Due settimane dopo ero a Genova.

Artemisia Gentileschi: prima donna, poi vittima e infine “celebrity”

Il mio stato d’animo quando ho varcato l’ingresso della mostra Artemisia Gentileschi, Coraggio e Passione non era dei più sereni, non meno e non più di quello di molte donne in Italia in questo periodo. Nella prima sala, sul colophon mi balzano immediatamente all’occhio tanti, troppi nomi di uomini per una mostra che si propone di indagare i sentimenti (“coraggio e passione”) di un’artista donna (oltre che per l’equo funzionamento di un settore, ma questa è un’altra storia). Davanti al pannello campeggia una mappa della città di Roma tra il 1610 e il 1612. «Dove tutto è cominciato», recita il titolo. L’inizio della sua carriera, penserete. Macché, la violenza sessuale subita dall’artista! Ci sono le case dei Gentileschi, la dimora di Agostino Tassi (il carnefice), luoghi di culto… la versione bidimensionale del plastico di Bruno Vespa, insomma. Il thriller è servito.

Nonostante nei pannelli introduttivi si sottolinei che «sarebbe un torto identificare Artemisia con quell’atto brutale» (per la serie non vorremmo mai, ma lo faremo lo stesso di degirolamiana memoria), da quel momento il termine “stupro” viene ripetuto morbosamente lungo tutto il percorso espositivo, perché – e cito – «Artemisia deve molto del suo successo anche a quello». Il focus è la vicenda personale di Gentileschi, mentre la sua bravura professionale viene raccontata quasi soltanto in funzione dei suoi talentuosi colleghi maschi: Caravaggio naturalmente, ma anche il padre Orazio e persino Agostino Tassi, la cui «abilità tecnica convive con un carattere inquieto» (birichino). Grazie a una “esperienza unica”, una proiezione sul soffitto, scopriamo che gli ultimi due avevano collaborato nella realizzazione del Casino delle Muse di Villa Pallavicini a Roma: l’opera è ritenuta “affascinante” dalla voce fuori campo non tanto per la sua resa formale, quanto per il sospetto che sul ponteggio essi possano aver parlato del matrimonio riparatore con Artemisia a seguito della violenza subita, romanzando il fatto di cronaca.

Artemisia Gentileschi, Conversione della Maddalena (1613-1615, Olio su tela, 146,5×108 cm, Firenze, Gallerie degli Uffizi, Palazzo Pitti, Galleria Palatina)

Mentre sto ancora rabbrividendo per quello che ho visto e sentito, procedo ignara nella stanza successiva dove sono affiancati Artemisia Gentileschi e Agostino Tassi. Secondo quanto dichiarato da Vittorio Sgarbi (Presidente del comitato scientifico della mostra), «dal punto di vista ideologico e culturale è particolare mettere insieme stupratore con vittima», dove il senso di “particolare” è tutto da capire. Ma il peggio deve ancora arrivare. A metà del percorso espositivo troviamo sotto teca i documenti originali del processo, provenienti dall’Archivio di Stato di Roma, affiancati da pannelli che raccontano le torture subite dalla pittrice, secondo una prassi diffusa nel Seicento allo scopo di verificare l’attendibilità delle parole di testimoni e imputati. Un presagio dell’orrore che di lì a poco si sarebbe dispiegato davanti a me, senza neanche un doveroso disclaimer a prepararmi. Attraverso un’installazione immersiva si mette in scena il momento dello stupro: un’attrice interpreta con pathos la descrizione della violenza che Artemisia pronunciò nel 1612 di fronte ai giudici del Tribunale del Governatore di Roma. C’è un vero letto al centro della stanza, su cui si scatenano tuoni e fragori. Alle pareti si proiettano una finestra, i manoscritti, le opere dell’artista grondanti di sangue. La violenza viene spettacolarizzata avvalendosi dei linguaggi televisivi del più becero dei talk show. È probabilmente la materializzazione più letterale del concetto di pornografia del dolore, che indugia sull’atto criminale nei suoi dettagli più macabri, alla stregua di un escamotage narrativo qualsiasi.

Artemisia Gentileschi. Coraggio e passione. Palazzo Ducale, Genova

A onor del vero lungo il percorso non mancano sezioni dedicate ad alcune pittrici di epoca moderna, sia autoritratte (poche), sia ritratte (molte) da uomini, allo scopo di indagarne l’aspetto esteriore. Le donne del resto, si sa, sono esseri delicati. Mentre le “tigri”, per citare sempre il mitico pannello introduttivo, come Artemisia Gentileschi, dallo stile pittorico crudo e caravaggesco, sono da definire «semmai come un pittore, dal momento che questa indole si addice molto di più a un uomo che a una donna», secondo Sgarbi. E anche Costantino D’Orazio, curatore della mostra, non ritiene importante definire Gentileschi un artista con l’apostrofo (Vera Gheno mi ascolti?). In ogni caso raramente si parla della qualità del suo lavoro nella storia dell’arte. Piuttosto ci si concentra sulla storia mitologico-letteraria dei soggetti ritratti, quasi sempre donne “forti” che hanno subito un torto, al punto che persino i dettagli stilistici, ad esempio la sua abilità nella resa dei drappeggi, sono forzatamente ricondotti al suo trauma: il panneggio delle vesti zoomato rimanda alle lenzuola, che a loro volta rimandano al letto, teatro della violenza subita.

Un appena accennato quanto posticcio tentativo di contestualizzazione storica viene offerto nell’ultima parte dell’esposizione dedicata ai caravaggeschi genovesi, in particolare in relazione al padre, visto che non si hanno testimonianze certe del passaggio in città della pittrice (un classicone delle mostre blockbuster che hanno ben poco se non nessun sedimento nel territorio). L’abuso dell’avverbio “forse” negli apparati testuali distribuiti lungo il percorso fa dubitare della scientificità del progetto, non fosse per il beneplacito di un autorevole storico dell’arte come Roberto Longhi a fine mostra che ne attesta la dignità artistica.

E dopo tanta serietà arriviamo alle cose più frivole: come si vestiva Artemisia Gentileschi? Nelle corti europee si fece notare per i suoi abiti al passo coi tempi per i quali non badava a spese. Sia mai che si parli di una donna senza mettere in mezzo la moda. Dunque, ricapitolando: Artemisia donna, vittima, celebrity. Gli schermi nella Cappella del Doge che trasmettono opere della pittrice in sequenza, con sottofondo di Vivaldi e Verdi, accompagnano visitatori e visitatrici verso l’uscita, traboccanti di Bellezza e ammirazione. Ma non è ancora tempo di tirare un sospiro di sollievo. L’orrore continua nel bookshop che propone un’ampia selezione di testi utili a fornire strumenti consapevoli di educazione sentimentale. Scherzo. In vendita ci sono foulard di seta sostenibile (una causa per volta) con le stampe dei quadri dell’artista con slogan “love” e “respect”, merch sbarazzino “no santa no bitch” oppure “I’m not your baby” e t-shirt che riportano l’ammissione di colpa di Agostino Tassi “Io del mio mal |ministro fui”.

 

Un’occasione mancata

Artemisia Gentileschi. Coraggio e passione è una mostra che scuote e stravolge. Ma non per i motivi sperati. Ci dimostra che non solo l’arte è politica ma anche la curatela, la comunicazione, il marketing. Tuttavia, sono arrivata a pensare che nella sua grottesca goffaggine essa ci riveli involontariamente e in modo lampante che il patriarcato esiste e definisce modelli culturali. Ecco, fosse stata un’esposizione sul patriarcato sarebbe stata inappuntabile. Poteva essere un’occasione per parlare di victim blaming, delle difficoltà di un’artista (con l’apostrofo) nel Seicento di farsi spazio in un circuito prettamente maschile, di come le esperienze traumatiche l’abbiano perseguitata in vita e dopo la morte, compromettendone inesorabilmente la reputazione. Invece no: vittimizzazione, pietismo e spettacolarizzazione. Artemisia Gentileschi avrebbe voluto diventare un’icona femminista? Non lo sappiamo. Possiamo verosimilmente immaginare, però, che non avrebbe voluto essere ricordata come la pittrice stuprata.

Il periodo di apertura (dal 16 novembre 2023 all’1 aprile 2024) si assicura di avere in calendario i giorni del 25 novembre e dell’8 marzo, appuntamenti imperdibili per una mostra che vorrebbe esprimere sensibilità e solidarietà verso il tema della violenza di genere, ma che invece rinsalda lo stereotipo della donna-fenice che rinasce dalle proprie ceneri, che ha – cito ancora – «saputo trasformare il proprio dolore in arte». Nel mio mondo ideale un’istituzione culturale ammetterebbe l’errore e si prodigherebbe per rimediare, interrogando la storia dell’arte e la comunità alla ricerca del modo giusto per farlo. L’empatia, il rispetto, l’onestà e la responsabilità, non sono concetti astratti mutuati dal patrimonio storico-artistico per riempire infrastrutture informative, ma valori da applicare nelle nostre scelte quotidiane. Nel mio mondo ideale la cultura la usiamo davvero per diventare persone migliori, anche grazie all’esempio di chi lavora nel settore.

L’unico aspetto positivo di tutta la vicenda è lo spirito di sorellanza partito da Carolina Dos Santos Guerreiro e Valentina Cervella, che ringrazio ancora per aver cercato in me orecchie e voce per portare all’attenzione una mostra purtroppo taciuta nelle sue criticità. Il loro sgomento è il mio e spero sia il nostro. “Bruciamo tutto” e facciamolo insieme.

13 Commenti

  1. Avevo visto il video su Instagram ed ero già agghiacciata, non pensavo che l’articolo con i suoi ulteriori dettagli potesse definitivamente annichilirmi. Sono schifata, disgustata, arrabbiata… ma come hanno potuto?

  2. Sono maschio, etero e non andro’ a vedere la mostra. La vostra descrizione rende perfettamente l’idea dell’occasione perduta, di fare conoscere l’arte di un’artista, donna o uomo che sia non importa, secondo una dimensione equilibrata e non ideologica. Come quasi tutto, oggi e’ tutto votato al consumo e al rendimento economico e politico di chiunque o qualsiasi cosa, possa essere esibita. C’e’ ritengo, un unico modo per non farsi assorbire da questo sistema, per ribellarsi a questo modo di interpretare la vita: boicottare, non partecipare a tali pseudo eventi mediateci. Ci sara’ certamente altro modo per conoscere veramente Artemisia che merita ben altra visibilita’.

  3. Mi stavo organizzando per andare a visitare la mostra di Artemisia, una pittrice che adoro per le sue opere e di cui ho un vivido ricordo per la mostra che la accomunò a suo padre, Orazio, qualche anno fa a Palazzo Venezia a Roma. Mai mi sarei, tuttavia, aspettato un taglio così incentrato sulla vicenda umana facendola prevalere sulla ben più vivida, e meritevole, vicenda artistica di una grande pittrice. Andrò ugualmente a Genova, per il grande amore che porto ad Artemisia, ma cercherò di calarmi nella sua Arte tralasciando il filo conduttore della mostra così ben evidenziato nell’articolo. Grazie

  4. Anch’io non andro’ a vedere la mostra, che pure aspettavo perché Artemisia è una pittora che mi piace moltissimo. Non è difficile capire come, con il coinvolgimento di certi personaggi, si sia arrivati ad umiliare una donna e, con lei, tutte noi.Grazie di cuore alle due coraggiose studentesse che hanno svelato il misfatto.

  5. Grazie dei vostri commenti su questa mostra, non andrò a vederla perché la bravura di Artemisia va oltre l’antefatto descritto. Ebbi ventura di vedere un suo quadro ad una mostra su Caravaggio e confesso il suo quadro di Giuditta e Oloferne mi fece fare un salto davanti a tanta emotività trasmessa. Fece scomparire gli stessi soggetti di un altro affiancato del Merisi.

  6. L’articolo è veramente interessante e illuminante, ora ancora di più voglio vedere la mostra e guardarla attraverso questa giusta recensione. Mi dispiace per Gentileschi che è una pittrice adorabile

  7. Mi dispiace x tutti i pecoroni che seguono i blog o critici..ma la mostra e’ bellissima.
    E semmai e’ un tributo fedele alla vita di questa pittrice.

    La storia va raccontata cosi’ come si svolse perche’ la violenza sulle donne e’ anche un tema attuale e va denunciato ora come allora!!
    ma anche se non lo fosse, questo e’cio che ha vissuto ed ha rappresentato!
    La verita’.
    non va strumentalizzato in nessun modo.
    Non fatevi ingannaree!!!
    A parte cio’ vi sono diverse sezioni che raccontano diverse sfacettature di artemisia e dei soggetti rappresentati nei suoi quadri il tutto ben inquadrato in un contesto storico.
    Io l ho aprezzata tantissimo ed era da tempo che non vedevo una mostra cosi bella.
    Buona cultura a tutti.
    Non fatevi ingannare dalla polemi-crazia🤣

  8. E comunque scusate…se e’ poco…questa storia e la storia di una donna che ce l ha fatta a conquistare la sua posizione NONOSTANTE TUTTO.
    E’ UNA STORIA DI RIVINCITA !
    io solo ho visto in quest articolo un errore grave di lettura ed interpretazione dell esposizione.
    Non ho assolutamente pensato minimamente cio che e stato citato nell articolo.anzi semmai il contrario.
    E comunque nella mostra ci sono opere di altre donne:rosalba carriera sofonisba d anguissola e altre ancora…ci sono imprecisioni ed esagerazioni nell articolo.
    Sicuri di aver visto tutto con attenzione??.mah..

  9. Cito Iole Siena, presidentessa di Arthemisia, che sottolinea:
    “tutta la mostra é una chiara ed evidentissima denuncia contro la violenza sulle donne.
    Non a caso si celebra la donna che per prima ha avuto il coraggio di denunciare pubblicamente la violenza subita e che, 400 anni fa, ha addirittura sfidato l’intera società per rivendicare la sua libertà.
    Se si parla di Artemisia, non é possibile omettere il racconto del fatto che ha segnato tutta la sua vita, soprattutto quella artistica.
    Significherebbe censurare i fatti.
    La mostra è stata fatta tutta da donne che lavorano in un’azienda fatta quasi interamente di donne, in cui il rispetto e la stima per le donne é al massimo livello possibile.
    Ma di cosa parliamo?”.

    Mi sembra che questo attacco contro la mostra abbia una evidente piegatura politica contro i curatori della mostra.
    La Gentileschi non era una “femminista” ante litteram, ma sicuramente era una donna intelligente, forte, determinata e, soprattutto, pittrice immensa, che seppe affermarsi per non essere stata né subalterna e né sottomessa nella società italiana del seicento.
    Quella sì marcata dal patriarcato.

  10. Ancora una volta la vittima è condannata, Artemisia, ieri come come oggi.
    È vergognoso, non andrò a vedere quella mostra, ho già ammirato alcune sue opere, ne vedrò altre con un allestimento meno scandaloso.

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