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Documenta si trova ancora una volta al centro di polemiche. La manifestazione che si svolge a cadenza quinquennale a Kassel, in Germania, e che è considerata una delle più importanti nel mondo dell’arte contemporanea, ha pubblicato pochi giorni fa il suo nuovo codice di condotta, nel quale si affronta esplicitamente il tema dell’antisemitismo, sulla scia del caos suscitato dall’edizione del 2022.
Nel luglio di quell’anno, Sabine Schormann, allora direttrice generale della manifestazione, si dimise a seguito di accuse di antisemitismo rivolte a un’opera esposta durante documenta 15, curata dal collettivo indonesiano ruangrupa. L’opera in questione, realizzata dal gruppo Taring Padi, presentava immagini considerate offensive. Nonostante la rimozione dell’opera, le critiche da parte di esponenti di partiti della destra e delle associazioni ebraiche tedesche portarono alle dimissioni di Schormann. Quindi, nel novembre 2023, fu l’intera commissione di selezione della nuova direzione artistica a dimettersi, a causa delle prese di posizione dell’organizzazione della manifestazione e delle ingerenze politiche a seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre e della reazione feroce di Israele.
In vista dell’edizione 2027 di Documenta, che sarà curata da Naomi Beckwith, nel testo viene dichiarato l’impegno a «Opporsi attivamente a tutte le forme di antisemitismo, razzismo e qualsiasi altra forma di misantropia legata ai gruppi». Tuttavia, l’adozione della controversa definizione di antisemitismo proposta dall’IHRA – Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto, che, tra l’altro, include la negazione del diritto all’esistenza di Israele tra le attività razziste, ha suscitato un acceso dibattito sulla libertà di espressione nell’arte.
Molti commentatori sostengono che questa definizione possa essere usata per censurare le opinioni degli artisti a favore della Palestina, mettendo potenzialmente a tacere il dissenso politico con il pretesto di combattere l’hate speech. Il movimento di artisti e attivisti Strike Germany ha invitato le istituzioni tedesche ad adottare la definizione di antisemitismo fornita dalla e Jerusalem Declaration, che chiarisce che la critica al sionismo non costituisce pregiudizio nei confronti degli ebrei.
Nel codice è anche specificato come la direzione artistica sia tenuta, entro tre mesi dalla nomina, a presentare il proprio concept curatoriale in un evento pubblico, fornendo informazioni sulla «Propria posizione sugli sviluppi attuali nel campo dell’arte contemporanea» e spiegando come «Garantire il rispetto della dignità umana salvaguardando al contempo la libertà artistica tutelata dalla Costituzione».
Il codice di condotta si applica all’organizzazione e ai suoi dipendenti ed è stato redatto da Andreas Hoffmann, che nel 2023 prese il posto di Schormann, al culmine di un processo partecipativo «Che ha coinvolto i dipendenti», ed è stato «Concordato con gli azionisti e successivamente confermato dal Consiglio di sorveglianza», spiegano da Documenta. Pochi giorni prima della pubblicazione del codice, a inizio febbraio 2025, c’era stato un cambio nel dipartimento Comunicazioni, con Silke Müller che ne ha assunto la direzione, al posto di Johanna Köhler, che aveva ricoperto l’incarico dal 2018. A fine gennaio era invece stato annunciato il nuovo comitato scientifico consultivo, che comprende Tania Coen-Uzzielli, direttrice del Tel Aviv Museum of Art, Nicole Deitelhoff, docente alla Goethe University di Francoforte, Susanne Gaensheimer, direttrice della Kunstsammlung NRW di Düsseldorf, la curatrice Diane Lima, il filosofo e germanista Christoph Menke, e Thomas Sparr, caporedattore presso la casa editrice Suhrkamp.
La questione non riguarda solo Documenta. In Germania, già da diverso tempo, si sta svolgendo un dibattito culturale e politico più ampio, come dimostra la recente decisione dell’artista Fareed Armaly di rifiutare il prestigioso Käthe Kollwitz Prize. Nella sua lettera, Armaly ha denunciato una «Inquietante tendenza alla censura in Germania», denunciando le politiche culturali «Altamente politicizzate e reazionarie» del Paese che, a suo avviso, stanno mettendo a tacere i sostenitori dei diritti dei palestinesi. «In un contesto di intimidazione, le istituzioni culturali liberali sembrano adottare la compiacenza e l’autocensura. Questo, consciamente o inconsciamente, porta alla continua disumanizzazione dei palestinesi, oscurando e astraendo la loro e voce», ha scritto Armaly, che è originario degli Stati Uniti ma che da anni vive e lavora a Berlino.
Inolte, a novembre 2024, durante l’inaugurazione della sua mostra alla Neue Nationalgalerie di Berlino, l’artista e attivista Nan Goldin ha preso la parola pubblicamente, definendo la guerra a Gaza «Un genocidio» e provocando una forte reazione delle istituzioni tedesche.
La posizione di Armaly e la pubblicazione del codice di condotta di Documenta riflettono un clima sempre più teso in Germania, dove diverse mostre e contratti di insegnamento sono stati cancellati o sospesi negli ultimi due anni, in riferimento a presunti casi di antisemitismo.