20 agosto 2022

Il Curatore è morto, lunga vita alla curatela

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Una questione sempre aperta: chi è il curatore? Curatore è colui che riesce a non distruggere il senso di indeterminatezza all’interno di ogni manifestazione del contemporaneo

Jan Dibbets, Museum Sokkel met vier hoeken van 90º (Museum Pedestal with Four Angels of 90º), Op Losse Schroeven exhibition, march 1969

Quale è il senso ultimo di un’opera d’arte? In quale senso viene esperita? Nel paradigma dell’arte contemporanea la risposta non esiste, poiché l’arte contemporanea è solamente in grado di porre domande. Il problema centrale è che ogni opera nasce e vive in un mondo dove la forma estetica rappresenta l’unica realtà possibile, ma in questo funzionamento autonomo essa non può mai essere altro che immagine. Negare l’immagine è impossibile, persino Le Vide di Yves Klein, la scelta di lasciare completamente vuota la galleria Iris Clert di Parigi nel 1958, crea di fatto l’immagine di un’assenza o lascia comunque al pubblico ampia immaginazione sul come potrebbero essere occupati determinati spazi e da cosa. Del resto anche John Cage, durante i suoi esperimenti all’interno della musica e del suono in genere, aveva scoperto che il silenzio totale non può esistere dal momento che esiste un’attività umana. Reificare è il ruolo della mente ed anche un’opera d’arte costituita dal solo pensiero alimenta associazioni che convergono sempre verso il crocevia dell’immagine. Per eliminare l’immagine o qualsiasi altro ingombro estetico bisognerebbe eliminare l’uomo. Se nel suo saggio The Role of Theory in Aesthetics, Morris Weitz afferma che l’opera d’arte è un concetto aperto proprio perché non ha significato intrinseco, Arthur C. Danto ne La Trasfigurazione del banale, afferma invece che l’opera d’arte è tale se detiene un significato intrinseco ed incarna questo significato. Ogni significato viene però messo in relazione con chi lo deve recepire. Pensiamo ad esempio ad una mostra, l’opera non può gravitare in una camera anecoica dove tutto è silenzio, essa si confronta di continuo con lo sguardo degli astanti, con i testi critici che la descrivono, con le didascalie, con le altre opere che la circondano, con lo spazio che occupa e con gli altri apparati curatoriali, non ultimo l’allestimento. Tutti questi elementi contribuiscono a creare suscettibilità che a loro volta generano fraintendimenti e interpretazioni altre, le quali in realtà non possono nemmeno essere appellate in tal senso, visto che è impossibile fraintendere ciò che non ha un preciso significato. L’arte pone quindi una domanda a cui solitamente risponde lo spettatore stesso, questo perché la realtà che essa rappresenta non può essere spiegata come una realtà per sé. In breve, l’opera nasce forse con un significato intrinseco ma l’esperienza estetica che essa propone diviene un’esperienza di senso e significato che non ha un confine ben delineato ma che si resetta ogni qual volta uno spettatore si pone in relazione alla stessa. L’opera non detiene nulla, visto che ogni cosa in suo possesso viene continuamente donata per essere poi cambiata. L’opera, essendo un’immagine, attiva esperienze estetiche che possono essere sentite o percepite solo attraverso la materialità per dirla come Jean-François Lyotard, o mette in relazione delle singolarità che possono essere attivate ma non percepite o concettualizzate come scrive Gilles Deleuze, o crea eventi che sfuggono alla coerenza ed alla logica dell’identificazione all’interno di un’estetica come scrive Alain Badiou. Ciascuna di queste idee riafferma l’urgenza che l’opera d’arte rimanga legata all’immagine e a uno spettro di esperienze del tutto soggettive, le quali non possono essere razionalizzate, educate o incanalate a tutti i costi, senza distorcere irreparabilmente l’opera medesima.

Yves Klein, Vue de l’exposition “Le Vide”, Galerie Iris Clert, Paris, 1958, © Photo: Tous droits réservés © Succession Yves Klein c/o ADAGP, Paris

Vista l’autonomia dello spettatore in relazione all’opera d’arte contemporanea è lecito a questo punto interrogarsi sull’utilità o meno del curatore d’arte. Nel 2014 Maurizio Cattelan organizzò la mostra “Shit And Die” in quel di Torino. A ridosso del grande successo di pubblico furono in molti a decretare la fine della curatela, non avvedendosi che in realtà l’artista si fece affiancare da ben due curatrici Myriam Ben Salah e Marta Papini. Anche sottraendo queste due figure, Cattelan avrebbe comunque ricoperto il ruolo del curatore nell’organizzare e gestire l’evento e nel fornire gli appigli didattici che gli assistenti di sala hanno poi ripetuto agli spettatori.

Shit and Die, ph: Zeno Zotti

Il curatore oggi è una figura manageriale indispensabile per molti fattori, innanzitutto salvaguarda il patrimonio artistico, in secondo luogo seleziona nuovi lavori e supporta gli artisti nelle loro carriere artistiche. Inoltre il curatore dialoga con collezionisti ed organismi pubblici, sostiene gli spazi indipendenti e collabora con le gallerie private. Milioni di persone ogni anno visitano grandi manifestazioni dedicate all’arte contemporanea, si tratta ormai di un rituale di massa. Il curatore imposta il lavoro in maniera che queste manifestazioni divengano un’esperienza formativa, accrescitiva e piacevole. Parliamo quindi di un’esperienza a cui dare un significato personale ma che in qualche modo deve essere prima organizzata e canalizzata per essere donata al pubblico.

L’errore della curatela contemporanea è forse rappresentato dalla presupponenza di dover per forza di cose dare un senso a quello che lo spettatore vede in un determinato istante. Una decisione sostanzialmente arbitraria è già rappresentata dal fatto di selezionare o meno un’opera all’interno di una data mostra o manifestazione, doverla spiegare o giustificare con un testo curatoriale straniante diviene una forzatura che spesso attua uno spaesamento e nulla più. Come si è detto all’inizio, essendo l’opera d’arte un’immagine, una rappresentazione estetica, è possibile trovare delle assonanze, delle armonie formali od oggettuali che possano rendere le esperienze ancor più fruibili ma è impossibile costringere ogni opera all’interno di un recinto comune di parole che spesso non hanno alcuna utilità se non quella di giustificare alcune scelte concettuali.

When Attitudes Become Form al Kunsthalle Berna, 1969, Mario Merz, Robert Morris, Barry Flanagan e Bruce Nauman

La curatela degli anni 2000 è alla disperata ricerca di uno stile personale, di un segno distintivo. Tutti vorrebbero essere Harald Szeemann ed inventare un nuovo capitolo di “When Attitudes Become Form”, come tutti vorrebbero essere portavoce di una nuova corrente come l’Arte Povera teorizzata da Germano Celant. Ci si vorrebbe in qualche modo disfare dell’immagine per teorizzare nuove realtà concettuali, nella pittura si predilige l’astratto al figurativo perché non è facilmente riconoscibile ed è molto più semplice da riprogrammare con mille artifici verbali. Eppure la pittura astratta è un’immagine, Celant e Szeemann hanno teorizzato il nuovo basandosi su delle estetiche accuratamente selezionate. Nicolas Bourriaud con le sue Estetiche relazionali ha dichiarato l’esistenza di un’arte basata sulla relazionalità e sul coinvolgimento del pubblico, il quale diviene non solo spettatore ma esso stesso artefice dell’opera. Per Bourriaud l’arte ha una funzione di scambio sociale e deve uscire dai luoghi a lei deputati come musei, fondazioni e gallerie. Gli artisti appartenenti a questa corrente filosofica degli anni ’90 sono però oggi legati a doppio filo con le istituzioni e le loro opere pur accogliendo il pubblico al loro interno hanno comunque bisogno di altro pubblico, un secondo occhio che fruisca il tutto attivandolo passivamente senza per forza farne parte. Va inoltre aggiunto che il pubblico all’interno dell’Estetica relazionale è sì partecipe dell’opera ma in quanto tale diviene un’immagine.

Che sia quello di creare una rivoluzione anarchica o quello di sovvertire un pensiero politico o ancora di accomunare opere secondo un determinato concetto, l’intento curatoriale rappresenta un’imposizione calata dall’alto che nulla a che vedere con il senso ultimo dell’opera, che come si diceva è soggetto alla suscettibilità dell’occhio dello spettatore.
Curatore è quindi colui che riesce a non distruggere il senso di indeterminatezza all’interno di ogni manifestazione artistica del contemporaneo.

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