04 giugno 2025

Scrollando Dalí, sognando Yamal, inseguiti dai brainrot: cosa è il surreale, oggi

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Un viaggio da Cormano a Barcellona, tra arte, algoritmi e meme virali, inseguendo le visioni di Dalí e i dribbling di Yamal, mentre il presente sfugge come un feed senza fine

Sono le 4:45 di mattina, sto partendo per Barcellona e in testa ho i Brainrot italiani. Bombardino Crocodilo, Trallallero Trallalà, Tum Tum Tum Sahur. Mi piacerebbe non averli sentiti ma mi è stato impossibile. Un figlio, gli studenti, l’algoritmo. Quei nomi entrano nelle orecchie senza poterli fermare e mi girano in testa mentre il mare mi scorre a sinistra. La Liguria e poi la Francia.

Mentre ci penso mi chiedo come e quando il mondo abbia deciso di lasciarmi indietro nella corsa alla produzione di visioni. Pigmenti contro chimere digitali da Milioni di visualizzazioni. Mi piacerebbe capirlo, ma non riesco.

Bevo un caffè a Cannes. Nella piazza fronte porto il sole mi scalda i jeans, gli yacht si ripuliscono per la stagione e il mercato del fresco è pieno di gente. Gli asparagi sono a 7 euro al cestello, come a casa mia, nella periferia milanese. Ma Cormano non è Cannes. Mi piacerebbe. Ma non lo è.

Vado a Barca ma mi fermo a Figueres, da Salvador Dalí. Mi piacerebbe poter dire che lo conosco, ma non l’ho mai frequentato, nemmeno quando vivevo a Barcellona.

Eppure ci vado. L’idea di puntare a Barcellona nasce da una trattativa con un figlio di 9 anni che non si rassegna all’idea di sprecare le sue vacanze pasquali a girare in auto per la Francia del sud coi genitori. – Almeno andiamo a Barca, magari incontro Yamal –

Mi piacerebbe scrivere che l’itinerario l’ho deciso io perché guido e pago il viaggio ma la realtà non è mai come mi piace.

Passo Avignone, dove molti anni fa, racconta mia madre, ho strappato la tiara del Vescovo che ci benediceva sulle scalinate della Cattedrale. Ora, invece, la luce occitana ingiallisce le pietre del palazzo dei Papi che sembra una fortezza. Tra due giorni morirà Francesco.

Il Rodano corre largo e la città sembra fatta dello stesso fango.

Il ponte di Saint Benezet mi porta in mezzo all’acqua. Mi piacerebbe vederlo appoggiarsi dall’altra parte, ma si ferma a metà del fiume. Un ponte senza scopo è un brainrot di pietra.

Dormo a Orange. C’è un teatro romano. Alto, vuoto, una scena senza attori. Nel piccolo museo di Orange c’è odore di muffa e vedo una sfinge con testa di donna e corpo animale e una fila di mammelle di pietra. Ancora una chimera rocciosa.

Continuo a guidare, Girona è incastrata nelle sue mura, Figueres invece è Dali-dipendente. Il museo è caotico e privo di supporti per i turisti. Non ci sono audio guide – a Dalí non sarebbero piaciute – dice la guardiania. 1-0 per lui.

Nel girare in tondo per questo teatro pieno, ho la sensazione che non potrò capirci molto. Le stanze abbracciano il vano della corte centrale e lì si ammassano sculture posticce e scenografie, tutte attorno ai resti di Rainy Taxi, l’opera assemblata con una Cadillac e oggetti vari. In una versione originale, il manichino autista vestiva una mandibola di squalo. Un brainrot dal passato mi morde la testa.

Giro per il museo incerto. Mi piacerebbe scrivere di avere avuto una epifania, ma niente. Tutto quello che mi piacerebbe non accade in questo tempo.

Ci sono moltissime cose nel museo, tutte appese, accostate, accatastate e sembra che siano lì per ridiscutere il concetto stesso del piacermi. Sono quasi tutte brutte o almeno questa è l’impressione nel vederle con i miei occhi. Provo una strana sensazione nel percorre quelle sale intrappolato nel flusso degli smartphone. Il senso continua a sfuggire e si fa piano piano meno necessario. Mi trovo davanti alla paranoia di Dalì. Mi spiega che la ricerca sola del senso non è sufficiente a esplicitarlo.

In questo panorama di resine, vernici, cartapesta e gommapiuma continuo a perdere aderenza. Da un lato non trovo appigli per stare appeso al mio compito di turista e mi accorgo di quanto sia stupido pensare che un biglietto sia sufficiente a comprare un luogo.

Dall’altro sono inutili gli strumenti che credo di essermi portato dall’Italia. La mia formazione artistica, il mio disegno, la mia pittura, i libri; ma anche le opere dei miei colleghi, degli amici Artisti, dei maestri. Dove collocare quel delirio strategico che suona oggi quasi ovvio per colpa di Wikipedia e psicanalisi. È ancora vivo Dalí? Riesce ancora a dubitare questo mondo che sa essere così sensatamente insopportabile? E come si confronta con i Brainrots italiani, visto che ce li ho ancora in testa?

Non so dire cosa accada dentro quel museo e nemmeno che valenza possa avere visitarlo oggi ma ho la certezza che la realtà rifuggita da Dalí non esiste più. Non c’è un singolo pezzo nel museo che non abbia un suo avatar più assurdo in rete. Trovo una testa di venere con l’orecchio sul naso. Un sarcofago di circuiti elettrici. Un divano labbra. Una partita di carte davanti a Las Meninas, tutta olografica e verde, la più brutta riproduzione di Raffaello che io abbia mai visto dal vivo e persino un uomo che piange lacrime di inchiostro nero, tanto per ricordarmi che ciò che fai non è mai del tutto tuo.

Forse è ovvio dirlo ma i meme virali e blasfemi che hanno invaso gli schermi nelle ultime settimane sono più pertinenti nel racconto di questi anni. Magari, come dicono, sono armi di distrazione di massa oppure anticorpi necessari per resistere al delirio di pensarci globali ma rimane il fatto che visitare questo museo sembra un’esperienza surrealista al contrario. A un tratto, mi sembra di trovare qui dentro una genesi capace di spiegarmi tutto l’insensato che accade fuori.

Per riconoscere del bello devo aspettare un piccolo dipinto di J.E. Meissonier in cui un minuscolo Napoleone calpesta una macchia di neve bianca. Sotto i piedi ha un’ombra di un ombra che fa da contrappunto a quella enorme che l’imperatore proiettò a suo tempo sull’Europa.

Esco su Placa De la Iglesia con la sensazione di aver fatto scrolling continuo, con il vantaggio che non ci sono state pubblicità. Dalì non mi vende niente.

Barcellona è cambiata ma non più di quanto sia cambiato io. Ci sono ancora gli zanza nel Raval. Si sente ancora odore di porro in Calle Hospital, nel vecchio ospedale. Dove disegnavo. Dove morì Gaudí. È sempre sporca e sempre magnifica, mai maestosa. Ha ancora l’aria di chi sa stare dalla parte giusta.

Seguo le tracce di Yamal con mio figlio. Store ufficiale, compriamo la maglia e lo cerchiamo nelle figurine della Liga. Guardiamo Barca – Mallorca in un bar catalano gestito da una signora cinese, unica donna tra soli uomini vestiti male. Giriamo con la palla, magari lo incontriamo.

Partita al parco Gaudi con ragazzi di strada, nessuna regole e molte spinte. Giochiamo sulla sabbia di Barceloneta e anche in Placa real la palla fa il suo dovere. Attira bambini da Canada, Croazia, Spagna, Francia. Giocano tra i tavolini dei turisti e nessuno rompe un bicchiere ma neanche le scatole.

Una città che lascia giocare a pallone nelle sue piazze affollate di turisti è una città che sta resistendo alla psicopatia del controllo ed è giusto che in questi anni insegni calcio al mondo.

Io siedo al caffè Ocaña, dove dondola una luna di cartapesta dipinta proprio da José Pérez Ocaña, artista protagonista della controcultura catalana durante gli anni finali di Franco.

Nel locale c’è una cabina per le foto tessere, sta lì da anni e all’esterno ci sono riportati i personaggi che si sono fotografati al suo interno. Basquiat, Lou Reed, Madonna. Mi basta un selfie e mi ibrido con il piccolo riflesso di Cindy Sherman.

Prima di tornare, mi presentano la Musa di Ocaña – Su Zorra official – così mi si presenta mentre sorride. Sta all’ingresso, ha ciglia lunghe, molto trucco, ricci neri e unghie finte. È alta, come me, ma sui tacchi si muove leggera e naturale come Yamal.

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