20 aprile 2020

Una scuola digitale per il futuro? No, grazie

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Lo scenario futuro ipotizzato a ripetizione dal Ministero dell'Istruzione in queste settimane non è percorribile. Perché nella scuola digitale vengono a mancare le basi dell'insegnamento e dell'apprendimento. E vi spieghiamo il perché

Tutti in classe, prima del covid-19
Tutti in classe, prima del covid-19

Proviamo a pensare a una scuola digitale fatta soltanto di tablet, pc, lezioni online e interfacce. Proviamo a fare nostra la parola più usata ultimamente dal Ministro alla Pubblica Istruzione Lucia Azzolina: “scenari”.
Proviamo infine a immaginarlo davvero uno scenario futuro, in cui il mondo della scuola si faccia ancora piccolo, scatolato, gestibile a pacchetti. E soprattutto a tempo. Sì, a tempo: di durata limitata, tanto quanto la potenza del segnale Wi-Fi o la velocità della connessione Internet di cui si dispone.
In queste ultime settimane, segnate dall’epidemia e da un virus che si è fatto principale nemico dell’uomo, l’attenzione si è giustamente concentrata sull’emergenza sanitaria e sui Decreti emanati dal Governo Conte, al fine di far fronte alla diminuzione dei contagi. E siamo tutti d’accordo che lo sforzo degli Italiani fin qui mostrato sia stato doveroso: unica soluzione per un Paese che si dica dotato di senso civico e che guardi con serietà al recupero di una vita libera, sana e consapevole degli errori pregressi.
Di scuola si è però parlato spesso in maniera confusa. Dirigenti e docenti hanno atteso con ansia, giorno dopo giorno, possibili soluzioni che garantissero la prosecuzione efficace delle lezioni e uniformassero strategie e metodi da adottare. Il risultato possibile – unico fra gli “scenari” – è stato quello di una didattica a distanza, su cui si è riversata tutta la speranza del Ministero di trovare pronto e preparato un mondo, cioè quello della scuola, che alle varie latitudini non è uguale per risorse e mezzi.
Per l’Italia, infatti, al tempo del Coronavirus, è suonata più di una campanella. Non soltanto quella che ha segnato la chiusura degli Istituti e delle Università, ma anche quella che sta dando conto, ora dopo ora, della reale capacità di rendere efficace l’ambizioso “Piano Nazionale Scuola Digitale”, nato per sostenere l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita (life-long) e in tutti i contesti, formali e non formali (life-wide). Una vera e propria azione culturale e di sistema cui il mondo della scuola guarda con ambizione da anni ma per cui, ahimè, credo non sia ancora pronto per mancanza di strumenti, risorse e formazione dei docenti.
Quella che si sta giocando da diverse settimane, infatti, è una vera prova del nove: per gli insegnanti, che si sono attivati con tutti i mezzi possibili, e per gli studenti di ogni ordine e grado, vero e unico cuore pulsante di ogni ambiente di apprendimento.
Che cosa è accaduto nei giorni scorsi? Quali punti di forza e quali punti di debolezza in una didattica che, oltre a distanziare, sembra essere destinata ad accompagnarci anche all’inizio del nuovo anno scolastico?

Aprile 2020, scuole chiuse
Aprile 2020, scuole chiuse

Non esiste apprendimento senza rapporto diretto

Partiamo da un assunto: non esiste un apprendimento attivo e dunque efficace, se non si garantisce un rapporto diretto fra docente e discente, se non si stimola cioè un sapere vivo che vinca l’ascolto passivo. Non esiste un rendimento che possa portare all’acquisizione di competenze realmente spendibili nella vita, se il docente non ha possibilità di monitorare i processi di apprendimento oltre ai risultati. Si sottovaluta spesso, questo aspetto: a scuola non si gioca la partita del più forte, non si contano soltanto i gol; a scuola si gioca la partita di una squadra che vince grazie alle specifiche capacità di tutti. Capacità che si acquisiscono nel tempo, con varie strategie, e con un approccio che necessita del contatto diretto con il docente. E questo chi insegna per professione lo sa, mentre l’opinione pubblica spesso lo dimentica, rimanendo appesa a sterili giudizi.
Insegnare richiede uno sforzo maggiore della vetusta “trasmissione del sapere”. Insegnare vuol dire conoscere nel profondo la sensibilità e la vivacità intellettiva di chi hai di fronte, vuol dire attivare contemporaneamente l’intelligenza emotiva e cognitiva di ciascun gruppo classe. Tutto ciò richiede da parte del docente preparazione nella propria disciplina, ma soprattutto capacità nella gestione della classe e conoscenza di tutte le metodologie che possano rendere sempre acceso l’interesse per l’apprendimento e per le attività proposte.
Come è possibile ricreare attraverso uno strumento tecnologico tutto ciò? Come è possibile riproporre in una didattica a distanza quelle tecniche che tengano conto degli aspetti pedagogici? E ancora, quale comunicazione può dirsi efficace senza la concreta valutazione di una metacomunicazione?
Guardare un alunno negli occhi risulta essenziale, osservare l’espressione del suo volto fondamentale, stimolarlo con un tono di voce diverso a seconda dei casi, anche. Insomma, il rischio è che se non si dovesse tener conto di tutti questi aspetti, l’apprendimento da attivo potrebbe trasformarsi in passivo e l’attività didattica esaurirsi alla mera conoscenza nozionistica. Il rischio è anche quello di avere studenti che cliccano ma non studiano, di docenti che insegnano ma con grande demotivazione.

La scuola pubblica italiana ai tempi del coronavirus (immagine da Repubblica)
La scuola pubblica italiana ai tempi del coronavirus (immagine da Repubblica)

L’impossibilità della rete di fronte alla vita reale

Numerose sono le testimonianze di maestri e professori che mettono in evidenza oggettive difficoltà: la Rete Internet non riesce a sostenere sempre il numeroso passaggio di informazioni in piattaforma; i Software scelti per lavorare non sono efficaci se si ha a che fare con gruppi classe numerosi; la comunicazione è difficile, spesso a singhiozzo per mancanza di segnale. Inoltre, per indicazione ministeriale, le lezioni devono essere relativamente brevi e gli approfondimenti diventano dunque una utopia.
Senza dimenticare un dato essenziale: la tecnologia è dispendiosa, non sempre alla portata di tutti. Alcuni studenti non hanno tablet funzionanti, altri non hanno un pc in famiglia. In altri casi ancora non si hanno Giga a sufficienza per potersi collegare con tutti gli insegnanti delle varie discipline. Il contesto familiare non sempre aiuta: se in classe la concentrazione poteva essere distolta dai compagni, a casa gli elementi distrattori si amplificano, avendo intorno genitori, fratelli e sorelle. E non escludiamo, da questo ragionamento, coloro che hanno specifiche difficoltà – i diversamente abili – che più di altri hanno bisogno di un punto di riferimento che sia per loro voce, pelle, contatto. E la scuola risponde all’obiettivo di essere sempre inclusiva.
Ad oggi, la didattica a distanza ha senz’altro garantito di conservare la vicinanza visiva ed emotiva. Ha permesso agli studenti di non perdersi, di trovare ancora nei docenti punti fermi a cui rivolgersi e con cui continuare a studiare fra mille difficoltà. Ha permesso abbracci virtuali che fanno bene e sollevano l’animo dall’angoscia momentanea, in un contesto storico segnato dalla morte. Ma in realtà lo strumento tecnologico non potrà mai sostituirsi al docente e nessuna piattaforma potrà ricreare quell’ambiente di apprendimento – che è la classe – in cui si vive la socialità, la relazione con l’altro. In cui si determina la formazione dell’individuo: riconoscere se stessi mentre si riconosce la diversità dell’altro.
Il rischio più grande, in una scuola futura che si ipotizzi solo digitale, è che questo sistema ci sintonizzi tutti su un modus operandi privo di umanità e di quella partecipazione al reale fatta di imprevedibilità, presenza e legami. Ma ancora di più il rischio potrebbe essere quello di una omologazione del pensiero al mezzo adoperato e di un sapere, fatto solo di conoscenze, privo di quella magia che solo il docente sa trasmettere quando ti guarda negli occhi.

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