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biennale_interviste Catherine David
biennale 2003
Non ama molto il termine di art curator. Preferisce dire che si occupa di questioni estetiche, di immagini e discorsi che si producono oggi in opposizione a quelli immediatamente pubblicitari. Già direttrice artistica di Documenta X per la Biennale ha confezionato una mostra sugli artisti arabi. E ce la racconta...
Quale differenze ci sono tra la rappresentazione offerta dai media della questione palestinese e quella data degli artisti nella sua mostra in seno alla Biennale?
Oggi mi sembra sempre più importante avere delle rappresentazioni che non siano immediatamente mediate, appartenenti ai media, dove tutto è fulmineamente etichettato, qualificato, segmentato, categorizzato. Tutta questa specie di bla bla che non vuol dire più niente, come nel caso della guerra in Iraq, dove si danno nomi di cose troppo difficili da descrivere e quindi si usano come copertura. Sono concetti con cui ci si gargarizza. Ma la cosa importante è che laddove non si può essere presenti ci siano ancora persone che sanno articolare frasi, trovare parole, eventualmente inventarne di nuove e avere delle velocità diverse per aprire distanze senza incollarsi immediatamente alle cose. E il lavoro estetico è un modo meraviglioso per non incollarsi alle cose.
Come ha lavorato con gli artisti che ha invitato?
Ci si conosce da un po’ di tempo, quindi ci si trova o si parla al telefono o ci si scrive delle e-mail. Non scelgo solo gli artisti che hanno gallerie o 50 esposizioni alle spalle, ma persone che hanno continue discussioni con i propri studenti e hanno domande e pensieri che esulano dal problema di fare soltanto un bell’oggetto ed esporlo nella galleria il mese seguente. Con queste persone si lavora con più calma, si discute e poco alla volta si arriva a un progetto a cui si lega eventualmente un avvenimento, un video o un’opera.
Come definirebbe la situazione dell’arte contemporanea in Libano?
Non credo che ci sia una situazione dell’arte contemporanea, ma ci sono evidentemente degli artisti e c’è una riflessione estetica sull’arte.
E’ diversa da quella occidentale?
Non amo discutere in termini di opposizioni. Certo ci sono autori che lavorano in questo modo di confronto frontale, ma ciò che mi interessa sono autori con un progetto culturale e che tendono a porsi delle domande, anche radicali come: cosa ne è della mia intelligenza o cos’è il mio bernoccolo d’artista in un momento in cui non ho più voglia di far niente e non posso andare così veloce? La questione legata alla produzione delle immagini e del discorso politico in questo momento in Libano: è questo ciò che mi interessa. Ecco, mi interessa qualcuno che riflette, che guarda e che non scatta una bella foto di cui non mi frega niente. Si tratta di persone che ho voglia di sollecitare su delle questioni di attualità o su di un testo filosofico. Mi sembra che in Libano non si sia lontani da pratiche concertate, filosofiche, di persone che lavorano nel proprio momento culturale e sociale e che stanno fuori dall’illustrazione dell’attualità politica libanese: fanno gli artisti tramite traduzioni simboliche che vanno oltre i cliché. Le condizioni di produzione i modi in cui essi si muovono nella loro società non sono affatto uguali a quelli che si vedono a Parigi, a New York o anche a San Paolo. La cornice socio-politica è totalmente diversa e la discussione è quasi assente e se le cose stanno cambiando un poco è anche perché in questi ultimi anni si sono aperti degli spazi che definirei di auto-produzione come alcuni festival e centri d’arte a Beirut che stanno creato delle reti.
Cambia il ruolo dell’artista nella società, dunque?
Sarei già meravigliata che ne avessero uno. Coloro con cui lavoro prendono il massimo della responsabilità nella loro società e non è male per ora.
E il pubblico?
E’ un problema molto difficile e crudele per alcuni di loro. Sono in una situazione che esige il pubblico, ma il pubblico è la comunità futura ed essi lavorano per qualcosa che non si è ancora costituito. Credo che a questo scopo tutti i soggetti che producono senso, ed eventualmente delle consecuzioni e delle conseguenze complesse, siano utili. Adesso si parla di pubblico e si pensa a quello della pubblicità, ma non è detto che sia qualcosa che risponde immediatamente. Mettere in circolazione certe forme, certe idee, cambiare alcune abitudini, cambiare lo sguardo ed eventualmente costituire un pubblico in Libano può essere un progetto. Credo che sia pericoloso e controproducente l’andar troppo veloce. E vanno considerati altri problemi, come l’analfabetismo: cosa vuol dire, ad esempio, lavorare in un paese in cui il buona parte della popolazione non ha accesso, non può leggere?
Ci si può forse orientare attraverso le tradizioni?
I Libanesi hanno un rapporto complesso con la tradizione che definirei “costitutivo” e che si lega alla “questione libanese”. Io ho la tendenza a esagerare e a forzare i toni quando sostengo che gli arabi non hanno più problemi degli altri con la tradizione, ma c’è il pericolo che la tradizione sia strumentalizzata. Quando il quotidiano e l’attualità è talmente crudele che si è obbligati ad avvicinarsi a un’origine introvabile per definizione, penso che ci sia pericolo. Ma in fondo non credo che gli arabi abbiano più problemi degli altri a rapportarsi con la tradizione. Vivono nel loro tempo e a modo proprio.
Dunque non sono irritati da queste discussioni estetiche provenienti dall’esterno della loro cultura?
Si che lo sono. Quando ho curato il mio primo progetto ed ho mostrato la lista degli artisti che avrei invitato, mi hanno detto “lei ha preso tutti i fricchettoni”. Chi mi interessa non sono gli artisti riconosciuti dalla società libanese e non sono le figure dell’establishment. In Libano accade così. Non è nulla di cattivo, certo è complicato. La situazione sociale, politica ed economica determina il fatto che il pubblico futuro non è ancora costituito e forse non si è neppure vicino alla sua costituzione.
Cosa pensa di DisOrietation, la mostra a Berlino sulla cultura araba?
Non mi interessa, perché è assente la cultura critica araba anche se il catalogo si avvale di attori importanti della cultura araba. Il progetto inoltre è generalizzante, non si sa bene cosa sia, e le opere visive (non parlo della letteratura perché è un discorso più sottile) sono dentro la categoria dell’illustrazione, che definirei come un “conceptual light” di scarso interesse.
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nicola angerame
[exibart]
Chi fà il bell’oggetto non ha un atteggiamento critico;
chi é ai margini ha un atteggiamento critico;
gli artisti noti non hanno un atteggiamento critico ma fanno parte dell’establishement;
da una parte ci sono i media che semplificano il reale e dall’altra altri che non si “incollano” alle cose (ma allora neanche loro ci dicono qualcosa di meno superficiale);
il pubblico vero non esiste ancora, evidentemente tutti quelli che alla Biennale si sono annoiati(o semplicemente sono passati dritti) alla sua mostra e a quella dei suoi colleghi non esistono o sono ciò che sarà superato da un pubblico vero (meno “critico” verso la Biennale?) .
Quel che non capisco è come fa questa
sputasentenze radical-chic, mantenuta dalla Demagogia Istituzional-controinstituzionale a ritenersi così
anti-sistema se poi alla Biennale dove lei ha portato questi sovversivi, i soldi sono arrivati dalla SONY, nota multinazionale dedita
alla realizzazione di un mondo migliore,
o migliore secondo i meravigliosi colori della
tecnologia video degli schermi di ultima produzione.