11 giugno 2003

Cos’è la globalizzazione nell’arte?

 
di nicola angerame

Il francese Philippe Vergne è curatore del Walker Art Center di Minneapolis. Lo abbiamo incontrato alla sua mostra When Latitudes become Forms, appena inauguratasi alla Fondazione Sandretto di Torino. Abbiamo parlato di globalizzazione, di sistema mondiale contrapposto a sistema statunitense, di differenze di linguaggi. Con un occhio sempre puntato sul ‘guru’ Haarald Szeeman…

di

Allora questa è una mostra sulla globalizzazione nell’arte contemporanea?
Non è il tema della mostra ma un metodo di lavoro che condivido con gli artisti i cui lavori hanno a che fare con la globalizzazione. Per me è una metodologia non so sia dovuta alla mia formazione francese. Quello che di lei mi interessa è la sua capacità di far slittare ciò che intendiamo per modernità, che in arte è cominciata da qualche parte in Europa e si è sviluppata in modo logico, cartesiano tra Europa e Stati Uniti. Questa modernità si rifà a un modello che esclude dalla storia dell’arte le simultaneità e le influenze provenienti da culture differenti che sono state basilari. Per me la globalizzazione è il tentativo di costruire una storia dell’arte che sia un po’ diversa, che non abbia inizio con Duchamp, Matisse e Picasso in Europa e prosegua in modo logico, stringente, fino a Bruce Naumann, MCabelo_This is the skin ( attew Barney o l’Arte Povera. Si sarebbe avuto Matisse senza l’Asia o Picasso senza l’Africa? E come comprendere Merce Cunningam o John Cage senza le loro influenze non occidentali? Ecco cosa mi interessa: un incontro di culture che non sia sistematico e che non appartengono ai filoni dell’arte contemporanea ufficiale e dominante. Questa mostra è un tentativo di rivedere il senso dell’arte contemporanea.

E’ possibile che dopo l’ultima Documenta e le Biennali curate da Szeemann (’99 / ’01), e credo anche con quest’ultima che sta per inaugurarsi, l’Occidente stia devolvendo la propria centralità a favore di continenti periferici ma che ormai utilizzano gli stessi linguaggi dell’arte contemporanea occidentale?
Oggi gli estremi non sono più geografici. La globalizzazione è un metodo che mette a disposizione strumenti per apprendere delle attitudini; insegna a cambiare e non restare comodamente assiepati in un unico modello di vita. La globalizzazione non è esportare pratiche occidentali ma è una metodologia. Essa mette a disposizione un modello incompiuto che per me è la cosa davvero interessante. Non sono d’accordo che il linguaggio in arte sia il medesimo ovunque. C’è, è vero, un linguaggio internazionale ma i contenuti delle opere sono molto diversi e partono dalle specificità. Ci sono, è vero, artisti intercambiabili: del resto nel modello dominante le parti sono intercambiabili. Ma a fianco vi sono artisti che continuamente cambiano l’arte. Il video di Song Dong ad esempio è una critica a Bruce Naumann e ciò è importante perché ne usa il linguaggio e l’estetica ma li porta da una parte altra, il che non sarebbe possibile se l’artista non vivesse in un contesto storico del tutto differente.
La cosa straordinaria è che l’informazione circola. In Cina gli artisti sono assolutamente familiari con la storia dell’arte occidentale. Quello che è preoccupante è che gli artisti occidentali non hanno la stessa familiarità con la Cina.

Atelier Bow-Wow_Pet Non sarà un modello statunitense di disinteresse storico, contrapposto al modello europeo di storicismo colonialistico?
Certo, eppure non è stupefacente che questa mostra provenga dagli Stati Uniti. E non da New York o Los Angeles, ma da Minneapolis una città al centro dell’America che ha subito ondate migratorie dall’Africa e dal Messico e ha sviluppato, lontano da influenze dirette, una curiosità e uno sguardo verso una storia diversa. Non penso che sia stupefacente che il fascino della globalizzazione provenga dagli Stati Uniti. Ad ogni modo la globalizzazione non è la verità in arte, ma è un metodo.

Mi è piaciuto quando hai detto che gli artisti hanno smesso di fare un’arte politica ma non di fare arte in modo politico. Dunque la tua estetica prevede un fine per l’arte?
Per risponderti metterei a confronto i sottotitoli delle due mostre, questa e quella di Szeeman del 1969 When Attitudes become Forms, a cui ho fatto riferimento, considerando che da allora in poi il curatore è diventato autore e gli artisti hanno cambiato il modo, lo spazio e fini del fare arte. Ne 1969 il sottotitolo era Live in your head. Il sottotitolo di questa mostra potrebbe essere invece Live in your world. Gli artisti qui presenti come Song Dong, che per me è un artista esemplare, dicono cose diverse. Naumann faceva le sue performance chiuso nel suo studio e anche se aveva metaforicamente un senso politico restava nel suo mondo, mentre in questa mostra gli artisti hanno un contatto con il mondo reale e cercano di costruire un ponte tra questo e quello interiore a partire dall’esperienza quotidiana. Non so se si tratta di arte sociale e ad ogni modo occorrerebbe studiare caso per caso. Inoltre penso che una mostra informata dal metodo della globalizzazione potrebbe essere anche di natura astratta e restare interessante. Perché interessante è questa simultaneità delle pratiche, di cui parlavo prima. Non vi sono pratiche migliori. E non vi sono gruppi come una volta ma vi è una coesistenza diffusa, dove tutto è possibile, anche se non tutto si giustifica, e dove e l’unica questione è quella di poter inventare nuovi sguardi sull’arte.

Trovo tutto questo discorso un po’ szeemaniano…
Si, è un bel complimento. Non so, certo mi muovo molto ed ho visto molte delle cose che lui ha fatto. Quello che posso dire è che ciò che ho preso dal suo modello è quello di avere fiducia negli artisti. Forse non è carino da dire, ma quello che mi ha inquietato di Documenta è che non ho mai sentito che il curatore avesse questa fiducia negli artisti. L’artista era lì per illustrare qualcosa di ideologico e di estetico ma non era lì per il proprio lavoro. Certamente l’estetica rilanciata da Documenta è molto importante ed esprime il bisogno di cambiare il modo di pensare l’arte e la cultura, e i modelli di lavoro. Ma la fiducia nell’artista viene da Szeemann, perché lui è un hippy e pensa utopicamente che l’artista può cambiare il mondo. Anch’io sono convinto che l’arte può fare la differenza e cambiare il mondo. Forse lo cambia per due o tre persone, ma già così non è male.

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nicola angerame

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3 Commenti

  1. E’ allarmante pensare che Philippe Vergne faccia nascere la “modernità” proprio dove muore: sui lidi del pensiero romantico di Duchamp, Matisse e Picasso. La “modernità”, vecchio arnese nato con Cartesio e morto con Wittgenstein, è un comodo luogo comune sopravissuto alla fine della metafisica con le sue categorie: progresso, storia, volontà etc. E’ inoltre ridicolo utilizzare un termine come globalizzazione per proporre quello che da sempre gli artisti cercano: oltrepassare, geograficamente e simbolicamente le colonne d’Ercole. La spaventosa crisi della storia dell’arte e dell’arte stessa dipende molto dal fatto che non possiede più un linguaggio condivisibile con qualche possibilità di creare inferenze con le altre manifestazioni del pensiero: scienza, epistemologia, psicologia, sociologia etc.

  2. io personalmente mi ero dimenticata di Arthur Danto e stasera leggendo qua e là mi sono ricordata di tale teoria che inconsapevolmente sto cercando di fare comprendere all’opinione pubblica non solo con le mie opere ma anche con le mie dirette TV.Sperando di ripristinare o rieducare l’opinione pubblica,cosa che la globalizzazione ci ha fatto dimenticare.ho inserito ciò che lui stesso esprime su cosa è l’arte in fb ed ora lo inserisco anche qui sperando di potere essere utile;cosa è l’arte ? secondo Arthur Danto :nella “destituzione filosofica dell’arte” ritiene che si possa distinguere un’opera d’arte da un oggetto qualsiasi (pur identico all’opera d’arte) mediante la sua possibile descrizione all’interno di un dato contesto.Non è un tipo di percezione diversa che caratterizza quindi l’oggetto estetico rispetto a un qualunque tipo di oggetto, ma il diverso contesto culturale . Ad esempio la “fontana” di Marcel Duchamp é un oggetto d’arte, anche se in altro contesto é un orinatoio. E’ infatti l’artista , che invocando ragioni storiche, culturali ed intenzionali a trasformare un oggetto in arte.
    tutti chi nella moda,chi in altri settori “artigianali” vogliono fare diventare arte ciò di cui molti di chi fa moda è bravo a potere divulgare l’immagine,lo stile,il designer ma non è educato al pensiero dell’arte ed è questo che porta questi prodotti a non distinguersi.fare arte oppure tutto ciò che crei come artista è un qualcosa che hai dentro sia di educazione di pensiero e tutto ciò che fai e crei gli altri lo riconoscono.ecco perchè stilisti non saranno mai artisti ed ecco perchè molti oggetti di moda non saranno mai arte perchè l’arte bisogna viverla,farla,ha delle discipline che con gli anni dell’esperienza viene naturale senza neanche accorgerti che fai arte ma gli altri te lo riconoscono e si affidano a te come uomo,donna che hai capacità intellettive.E’ un mestiere che si impara con gli anni e si fa perchè sei nato a farlo e non potresti fare altro. chi fa arte non pensa a dovere avere il lavoro per mantenersi vive giorno per giorno senza pensare ma avrò una pensione? manterrò una famiglia? e non ripiega all’insegnamento per vivere come spesso accade. l’artista può scegliere ciò che vuole perchè esso è padrone di se stesso e non accetta i compromessi per fini commerciali.ti piace l’opera la compri bene non la compri se non sei tu sarà un altro. vivere di arte è anche questo ma ce lo siamo scordati perchè sono pochi quelli che veramnte sanno avere la conoscenza e capire il linguaggio dell’arte. Credo o almeno penso l’arte è un linguaggio e solo chi opera e fa arte la comprende tutto il resto sono teorie per credersi artisti.

  3. Gli artisti non cercano la globalizzazione gli artisti cercano solo di essere riconosciuti e la cosa è molto ben diversa dalla globalizzazione che ha incorporato nel settore artistico pseudo artisti creando veramente una grandissima confusione per i futuri investitori e creando anche problematiche a quei divulgatori seri che lo fanno seriamnte di mestiere. si dovrebbe attivare una differenza tra le due cose e si dovrebbe creare una nuova politica restrittiva se è necessario salvaguardare la parte più qualitativa dell’arte italiana
    distinti saluti
    martinelli-art

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