09 maggio 2020

Selfie miglior documentario ai David: l’intervista ad Agostino Ferrente

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«Ho inquadrato il dito»: Agostino Ferrente ci racconta di Selfie, film uscito nel 2019 e vincitore del David di Donatello come miglior documentario

frame da Selfie, film di Agostino Ferrente

Quando uscì nelle sale, nel 2019, il mondo era molto diverso ma Selfie, opera del regista Agostino Ferrente, non ha perso affatto la sua capacità di raccontare le vite delle persone, tanto da aver appena ricevuto il David di Donatello per il migliore documentario. Un’edizione segnata dal lockdown e che è stata dedicata alle oltre 200mila persone che lavorano nel campo dell’industria cinematografica, settore duramente colpito dall’emergenza Covid-19 e che dovrà trovare nuove modalità non solo di fruizione ma anche di produzione, insomma, reinventarsi.

Agostino Ferrente, per raccontare la drammatica storia di Davide Bifulco, ragazzo di 17 anni ucciso dal carabiniere Gianni Macchiarolo nella notte del 5 settembre del 2014, ha deciso di ribaltare il punto di vista della macchina da presa, facendo scorrere le storie di due giovani e del Rione Traiano in cui abitano, attraverso la camera frontale di un iPhone. Un lungo selfie, divertente e commovente, riflessivo e in movimento, di cui ci parla meglio lo stesso Agostino Ferrente, che abbiamo raggiunto per una intervista.

In Selfie, si parte dalla tragica vicenda di Davide Bifulco, per poi ampliare il punto di vista al contesto del Rione Traiano. È stato uno spostamento in corso d’opera? È successo qualcosa di specifico, in fase di lavorazione, che ti ha fatto cambiare obiettivo?

«No, nessuno spostamento rispetto all’idea iniziale, che era appunto quella di raccontare la tragica vicenda di Davide attraverso il punto di vista, sia in senso sia figurativo che materiale, di due suoi amici coetanei. Anche loro hanno 16 anni, ovvero l’età che aveva Davide quando è stato ammazzato, anche loro, come Davide, hanno abbandonato la scuola a 13 anni, anche a loro può capitare di girare in motorino senza casco la notte, come era successo al loro amico e vicino di casa quando i carabinieri gli spararono. È successo a Davide, poteva succedere a loro.

La mia idea dunque è stata quella di raccontare non solo questa tragedia ma anche il contesto in cui è maturata, anche per far conoscere degli aspetti sconosciuti ai più, visto che di solito i media associano sempre questi quartieri popolari solo ai loro aspetti negativi, per lo più legati al degrado e alla criminalità, innescando un circolo vizioso a seguito del quale poi, quando si verifica un dramma come quello di Davide la gente dice: vabbè, finché se ne va uno di loro…

Ecco, raccontando la quotidianità di Alessandro e Pietro, la loro umanità, la loro splendida amicizia, le loro speranze, le loro ingenuità, le loro fragilità, le paure, i dubbi, l’entusiasmo, la voglia di una vita “normale” in un quartiere dove la devianza è quasi sempre un destino già scritto, raccontare il loro sguardo, era un metodo per far capire quale sarebbe stata la vita di Davide se non gliel’avessero strappata».

frame da Selfie, film di Agostino Ferrente

In che modo sei arrivato a individuare le storie di Alessandro e Pietro? Come hai approfondito il tuo rapporto con loro?

«Alessandro l’ho conosciuto al Bar Cocco. Gianni Bifulco mi aveva dato appuntamento lì per raccontarmi la tragedia di suo figlio Davide. Stavo spiegando a quel padre disperato la mia idea del film e nel frattempo mi stavo innamorando dell’inserviente del bar, un ragazzino con la faccia magra e un po’ di brufoli, che ci serviva il caffè con fare trafelato, al limite dello scorbutico, andava di fretta perché doveva prepararsi per la festa della Madonna dell’Arco. Colsi l’occasione e gli diedi uno smartphone chiedendogli se gli andava di filmare la cerimonia per me, ma a condizione che nell’inquadratura ci fosse anche lui…

Quella divenne la prima sequenza filmata poi finita nel montaggio e Alessandro mi colpì perché durante la processione, mentre si filmava in selfie inquadrando alle sue spalle la statua della Madonna, si commosse, ma non smise di filmare, mentre la lacrima gli scivolava sul viso. Il giorno dopo si presentò da me, sempre al bar Cocco, un ragazzo più paffutello, con i baffi, rivendicando, con un tono quasi risentito, che lui era il miglior amico di Alessandro, che aveva rinunciato ad andare in vacanza con la famiglia, pur di tenergli compagnia al Rione, che Alessandro non poteva lasciare non avendo avuto ferie. Se era vero che facevo film “veri”, così definiva il documentario per differenziarlo dalle fiction, allora io non potevo non prendere anche lui, Pietro. Sennò il mio sarebbe stato un film falso.

Ho trascorso molto tempo con loro, per raggiungere quel grado di confidenza e intimità fondamentale per poter poi diventare invisibile durante le riprese di scene in cui loro sembrano da soli. E la scelta dell’autoritratto, l’idea di chiedergli di guardarsi mentre si filmano nel display del cellulare come fosse uno specchio, l’idea di abolire il “filtro” del cameraman, è uno stratagemma per restituire una sensazione di “immersività”, per far vivere allo spettatore la loro vita attraverso i loro occhi, per scoprire un mondo sconosciuto o spesso romanzato da narrazioni che devono privilegiare la spettacolarizzazione della violenza. Non c’è una delega di regia, loro oltre che protagonisti sono diventati anche cameraman».

Il selfie è spesso associato a un tipo di immagine stereotipata. In questo caso, invece, la telecamera frontale dell’iPhone viene usata come una finestra sul mondo quotidiano dei due ragazzi.

«Ti rispondo con un estratto di una bellissima recensione dei mitici Chaiers du Cinema, secondo cui: Alessandro e Pietro “trasformano un dispositivo solitamente orientato a narcisismo e isteria in una sonda intima, uno specchio che piuttosto che riflettere la superficie di ciò che li circonda affonda nella loro anima in un miscuglio di frontalità e pudore».

Quanto c’è di vero e quanto di verosimile, in ciò che si vede? Nel corso delle riprese, hai notato un cambiamento di atteggiamento, da parte di Alessandro e Pietro, davanti alla camera?

«Nel cinema sia esso fiction o documentario non esiste mai nulla di “vero”. Il cinema è di per se un illusione ottica, un “trucco” un falso movimento, che ti restituisce qualcosa di “verosimile”.

Ogni personaggio se si comporta con naturalezza su un set di un documentario, come se la troupe attorno a lui non ci fosse, già sta “recitando”. La differenza con la fiction, dirimente, è che in quel caso il protagonista recita la parte di un’altra persona e non di se stesso, di una persona e di una storia inventate. Mentre nel documentario il soggetto racconta se stesso e la sua storia “vera”. Insomma, nel documentario i protagonisti prima di diventare “personaggi” sono “persone” e il compito del regista è di aiutarli a mettersi in scena nel migliore dei modi.

La vita dura 24 ore al giorno e può essere filmata da un’infinità di punti di vista, il compito del regista è di fare una sintesi, scegliendo e propiziando se necessario gli aspetti più rappresentativi e “cinematografici” ovvero per trasformare la loro vita in un film di pochi minuti. E il cinema ha delle regole e il regista le conosce e cerca di attuarle: i dialoghi devono essere interessanti, le situazioni devono poter commuovere, far riflettere, far divertire. Io personalmente intervengo molto, creo le situazioni, incanalo i dialoghi, suggerisco gli argomenti da trattare, spesso anche le battute. Ma sempre rigorosamente rispettando la loro natura, sia per ragioni etiche che est-etiche: perché se suggerisci qualcosa che loro non sentono propria giustamente, si rifiutano. E anche se ci provassero, non essendo attori professionisti, la interpreterebbero probabilmente col risultato posticcio di una recita scolastica.

Ma in questo sono molto aiutato dal fatto che la persona/personaggio è già di per se un patrimonio narrativo: la sua faccia, la sua storia, il suo pensiero esistono già non sono stati inventati in fase di sceneggiatura quindi quando il regista li sceglie i suoi protagonisti, metà del lavoro è già fatto, gli ingredienti ci sono, vanno solo cucinati. Io la chiamo “drammaturgia sul campo”».

Pensi che il film, questa sorta di auto testimonianza che ha coinvolto non solo i protagonisti, abbia cambiato qualcosa nelle vite dei ragazzi?

«Ogni documentario, se fatto con rispetto, finisce col fornire ai protagonisti un aiuto a prendere coscienza di chi sono. Nel caso di persone provenienti da ambienti disagiati, può servire anche a ricordargli quali sono i loro diritti di cui spesso non sono a conoscenza, diritti di cui vengono di fatto privati.

Un film documentario, in generale, per i personaggi che lo interpretano è come fosse uno specchio. Nel caso di Selfie, questo va oltre la dimensione metaforica, visto che materialmente si specchiano nel display del cellulare. Aggiungo che poi, a film finito, Alessandro e Pietro, e talvolta anche gli altri personaggi non protagonisti li ho portati con me a presentare il film in vaie città anche all’estero, a partire da Berlino. E questa per loro è stata un’esperienza fantastica. In tutto questo, Pietro, anche grazie al film, ha realizzato il suo sogno di diventare parrucchiere e Alessandro ha ottenuto un ruolo di maggiore responsabilità nel suo bar».

Il documentario dura circa 76 minuti ma possiamo immaginare che il girato sia stato molto più lungo. Quali criteri avete scelto di seguire, in fase di montaggio?

«In realtà non era lunghissimo, poiché avevo delle idee precise durante le riprese. Più che altro la difficoltà consisteva nella mancanza di controcampi, essendo le riprese tutte in piano sequenza. E abbiamo provato a risolvere con “jump cut”. La parte più impegnativa è stata questa, giacché il tipo di materiale filmato era davvero inusuale. E poi abbiamo dovuto dare un senso compiuto e continuativo ai vari momenti vissuti, creando una progressione temporale aiutandoci con l’inserimento delle immagini delle telecamere di sicurezza con le date e gli orari in progressione».

Hai lavorato a Napoli anche in altre occasioni, per esempio per il documentario Le Cose Belle, ambientato tra il 1999 e il 2013. Nel corso di questi anni, ci sono stati dei cambiamenti nella città e nel tuo approccio alla città, considerando anche i tanti modi in cui Napoli è stata raccontata?

«Per anni Napoli ha avuto un primato in Europa, essere l’unica grande città dove il popolo continuava a vivere anche nel centro. Poi anche a Napoli è arrivata la gentrification e molti ragazzi disoccupati che ereditavano case grandi dai nonni le hanno adibite a B&B. Questo ha portato tantissimi turisti al centro e il sindaco si è concentrato nella promozione soprattutto su questi quartieri del centro storico, di fatto trascurando le periferie.

Per quanto riguarda il mio approccio narrativo, da anni c’è una sorta di accanimento mediatico su Napoli, soprattutto le serie TV.  Anch’io, nel mio piccolo, vi ho partecipato con i miei lavori precedenti. La nuova narrazione ha creato una nuova cartolina delle città dormitorio, quelle della ricostruzione post terremoto che tanto arricchì la Camorra. Per esempio le famigerate Vele di Scampia o i palazzoni di Ponticelli. Questa nuova “cartolina” è talmente potente visivamente che ha preso il posto della precedente che durava da un secolo: la pizza, il mandolino. In ogni film su Napoli ormai tutti si aspettano quel look, anche i miei produttori francesi all’inizio se lo aspettavano… Allora io ho pensato che sarebbe stato bello non raccontare quello che i ragazzi di Napoli vedono (che ormai tutti conosciamo) quanto gli occhi che guardano, che spesso possono fare solo quello, guardare.

Cioè, è come se invece di inquadrare la luna abbia sempre inquadrato il dito…».

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