23 giugno 2006

design_interviste Dorothy Gray. I sogni degli oggetti

 
Al loro esordio, al Salone Satellite 2005, hanno vinto il Premio del Pubblico. Un anno dopo il Museo dell’Arredo di Ravenna gli dedica una personale. Sono Simone Cannolicchio, Giovanni Delvecchio, Matteo Manenti, Matteo Pini e Federico Santolini...

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Il nome che vi siete scelti, Dorothy Gray, oscillante com’è fra il dandy e il meraviglioso, rende bene la particolare alchimia di gioco e magia che caratterizza i vostri oggetti. Da dove viene questa scelta?
Deriva dal nome della protagonista del Mago di Oz, che credevamo fosse Dorothy Gray e invece abbiamo poi scoperto essere Dorothy Gale. Però abbiamo deciso ugualmente di chiamarci Dorothy Gray, perché suonava bene. La nostra idea era di apparire non come cinque ragazzi italiani ma come una ragazza inglese.

Quali sono state le tappe decisive del vostro percorso di formazione?
Per tutti il momento più importante è stato frequentare l’ISIA di Faenza, dove ci siamo conosciuti e dove abbiamo iniziato a lavorare insieme. Prima dell’ISIA però abbiamo avuto storie diverse, che ci hanno portato ad affrontare la progettazione in modi differenti, a volte anche conflittuali. Ma questo fa bene alla crescita.

La vostra carriera iniziò nel 2005, quando, presentando i primi progetti a firma del gruppo Dorothy Gray, vinceste il Premio del Pubblico al Salone Satellite di Milano. Immagino non ve l’aspettavate. Cosa pensaste in quel momento?
Ci siamo chiesti perché fu il pubblico a premiarci e non la giuria. Forse i giudici cercavano un diverso tipo di design, più orientato all’industrial, mentre con i nostri oggetti era importante l’interazione, che il pubblico seppe cogliere e con cui si divertì molto.
Matteo Pini per Dorothy Gray - Sanguinella - 2006 - Museo dell
Tre di voi sono di Cesena, uno di Forlì, uno di Bologna. Cosa significa fare design in una regione come l’Emilia-Romagna?
Significa che quello che fai, se sei bravo, può essere apprezzato dalle gallerie e dai musei, ma non dalle aziende che dovrebbero produrti i pezzi. Qui i nostri oggetti tendono ad essere fraintesi, considerati più alla stregua di opere d’arte che di oggetti di design, qualcosa da mettere in casa come una scultura. Se ci pensi è paradossale, perché questo è un territorio ricco di piccole-medie imprese che potrebbero trarre grande vantaggio dal proporre piccole produzioni lontane dallo standard di design industriale. Ad ogni modo, qui viviamo sia accanto alle produzioni industriali sia accanto alle produzioni artigianali. Questo inevitabilmente si traduce nel modo in cui lavoriamo.

Osservando i vostri lavori si avverte una sorta di tenerezza per gli oggetti che forse più di ogni altra cosa li allontana dalla produzione di serie, i cui prodotti sono fatti per essere sostituiti velocemente e, direi, spietatamente. Voi invece vi soffermate sugli oggetti per come sono, per come ci sono stati accanto mentre crescevamo, per come hanno sopportato le nostre fisime e i nostri difetti, e ora sembra quasi che li invitiate ad esibire i loro difetti, avvalendovi del gioco, della leggerezza, dell’ironia…
Siamo cresciuti in una generazione piena di oggetti, e crescendoci insieme ti ci affezioni, anche a quelli inutili. Questo affetto per gli oggetti, nel momento in cui progetti, diventa l’esigenza di creare qualcosa che abbia in sé la potenzialità di un rapporto con le persone che si protrae nel tempo.

Cosa ne pensate della generazione di designer alla quale appartenete (allieva degli allievi dei Maestri)?
Abbiamo visto tutto il buono che c’è nel disegno industriale, e abbiamo cercato un modo nuovo per fare le nostre cose. Forse abbiamo più oggetti intorno da vedere che nuovi da immaginare.
Oggi, dopo l’arte concettuale e la prototipazione rapida chiunque può, o crede di potere, fare qualunque cosa. In mezzo a questa confusione noi cerchiamo di dare un’identità agli oggetti. Ma abbiamo una grossa paura di fare cose già fatte. Quando lavoriamo la gara è contemporanea a livello mondiale. Se uno dall’altra parte del mondo pensa una cosa un attimo prima di te, ti ha battuto. E se tu non lo sai, perché è impossibile vedere tutto, puoi ritrovarti a lavorare a qualcosa che è già stato fatto.
Non c’è necessità di produrre altri oggetti. C’è necessità di esprimere un’idea soggettiva. Voglio dire: è necessario mettere due interruttori in più a una lampada? Forse è necessario in quest’epoca.
Giovanni Delvecchio per Dorothy Gray - Burton - 2006 - Museo dell
Rispetto agli oggetti che presentaste al Satellite di Milano nell’aprile 2005 i pezzi che avete esposto al Museo dell’Arredo Contemporaneo di Ravenna nell’aprile 2006 alla vostra personale “Dorothy Gray – Disabitare” sembrano meno ludici, in qualche modo più “estetici”, appartenenti non tanto a un mondo che potrebbe essere ma che saerbbe potuto essere. Penso al vostro pezzo più conosciuto, il tavolo con l’orto Sativa, ma anche al vaso Hikikomori, o alla piastrella Sanguinella
Gli oggetti che abbiamo portato al Museo dell’Arredo sono meno interattivi. Forse perché al Museo abbiamo esposto accanto ai pezzi dei maestri, e questo ci ha influenzato. Siamo noi che abbiamo giocato di meno. Anche perché per il Museo ciascuno ha progettato per il gruppo ma individualmente. Ne sono nati oggetti più “carismatici”.
Matteo M.: Secondo me i nuovi pezzi non sono meno interattivi dei primi. Nel centrino-ombra, nella piastrella-spremiagrumi, nel vaso che guida la pianta l’interazione può essere meno ludica, ma c’è.

Il vostro approccio al design è molto simile a quello dell’arte, dall’autoproduzione dei pezzi fino all’importanza preponderante che attribuite al valore simbolico-significativo rispetto a quello funzionale. Come vi sentite nei confronti dell’arte, e come credete che il mondo dell’arte si senta nei vostri confronti?
Giovanni: I pezzi della produzione di serie, come quelli dei Maestri, sono oggetti industriali che cercano di essere arte. I nostri sono oggetti d’arte che cercano di essere industriali.
Gli altri: Noi non siamo del tutto d’accordo. Il discorso è più ampio. Non c’è quasi più differenza fra design e arte, a parte il fatto che l’artista si può permettere di lavorare senza i vincoli che appartengono al progettista di oggetti industriali.
Dorothy Gray - Sativa - 2005 – salone Satellite di Milano
Il sociologo Zygmunt Bauman parla della nostra società come di una “società liquida”, nella quale ci si muove da un recipiente a un altro, tutti provvisori, senza mai preservare la stessa forma. Gli oggetti, si direbbe, essendo fatti di solida materia sono l’ultima cosa suscettibile di liquefazione. Eppure i vostri pezzi sembrano proprio questo, i segni materiali di un’antropologia liquida…<
Essendo noi parte integrante di questo quadro, anche i nostri oggetti portano con sé questa idea di liquefazione. Gli oggetti sono solidi, però tutto quello che c’è attorno è liquido, ed è con questo ambiente che si devono rapportare. Noi per primi viviamo nell’indeterminatezza. L’oggetto è fatto di materia e quindi durerà nel tempo, ciò significa che in qualche modo ha il tempo in sé, e il tempo che i nostri oggetti hanno in loro è un tempo liquido e indeterminato.

link correlati
www.dorothygray.net
www.museoarredocontemporaneo.com

intervista a cura di stefano caggiano

[exibart]


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