31 dicembre 2021

La voce degli artisti di Roma, nel documentario di Guido Talarico

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"La Luce di Roma" è l’ultimo documentario di Guido Talarico, che illumina le nuove prospettive culturali di Roma, a partire dalle esperienze dei suoi artisti

Dal 23 dicembre 2021, su ITsART è visibile “La Luce di Roma”, il nuovo documentario ideato, scritto e diretto dal regista e produttore Guido Talarico. Realizzato con la Fondazione Patrimonio Italia e Associated Medias Press Agency, il film è trasmesso dalla Lilium Distribution per una fruizione sul mercato italiano e internazionale, dalla Gran Bretagna all’Europa. Il documentario si propone di fornire una chiave di lettura dell’attualità per mostrare nuove vedute da chi «Sa guardare oltre», partendo da antiche responsabilità e approdando a un futuro sociale che aderisca all’anima non solo di una città, ma dell’intera civiltà che Roma rappresenta.

La parola va agli artisti che, impressa la loro prestigiosa firma, vivono e lavorano nella Capitale, come Andreco, Gianni Dessì, Piero Pizzi Cannella, Oliviero Rainaldi, Dirk Vogel, Rä di Martino, Marco Tirelli, Pietro Ruffo, Silvia Giambrone, Cesare Pietroiusti, Veronica Montanino, Matteo Basilè, Gian Maria Tosatti e Roberta Coni. Tutti gli autori si rivolgono al passato, approfondendo il periodo della loro formazione e il rapporto con i maestri che li hanno guidati, e parlano al presente, esprimendo la propria interpretazione della città e del generale senso di alienazione culturale. Il loro punto di vista non solo pone in discussione il proprio ruolo, ma anche quello dei galleristi, fino a una riflessione sulle regole del mercato dell’arte con la prospettiva di ricrearne nuove, indirizzando il pubblico a percorsi non ancora percepiti.

Studi e musei, scorci architettonici e tele sfaccettate, immortalati dalla fotografia di Francesco Talarico, prima si mescolano e poi si compongono nelle parti di un affresco dinamico.

La missione del documentario “La Luce di Roma” è quella di «Aprire spazi a riflessioni che coinvolgano lo spettatore e lo conducano all’impegno e alla responsabilità civica, per una ripresa dell’interesse nei confronti della gestione della cosa pubblica. Il tutto naturalmente visto dal punto dell’arte e del talento contemporaneo», afferma il regista, che ci dice di più in questa intervista.

Guido Talarico

“A un certo punto Roma ha smesso di esistere”, afferma così Gian Maria Tosatti. “È necessario il caos per una qualsiasi forma di creazione”, dice Rä di Martino. “Servirebbe l’arte per ripartire”, sostiene Cesare Pietroiusti, “non come dato informale, bensì morale”, spiega Gianni Dessì. Questi sono solo alcuni tra i noti artisti e teorici che hai intervistato nel nuovo film, La luce di Roma, da te scritto e diretto, in cui il mutamento auspicato è associato al concetto di lume. Qual è il tuo intento: illuminare nuove prospettive o riappropriarsi di quello splendore tipico della Dolce Vita romana degli anni Sessanta?

«Il film ha un obiettivo chiaro che consiste nell’utilizzare gli artisti come uno strumento per decodificare la realtà e immaginare un futuro migliore per Roma. Sono partito considerando il mondo della cultura come un soggetto politico. Per questo ho chiesto ad alcuni dei migliori artisti della nostra Capitale di mettere la loro sensibilità, la loro capacità di preveggenza a servizio di tutti per capire come far recuperare terreno e prospettiva alla Città. L’idea di questo documentario è nata prima del Covid, guardando una città diventata l’ombra del suo mito, ripiegata in sé stessa e incapace di rialzare la testa, con politica e classe dirigente, sia pubblica sia privata, sul banco degli imputati, e immaginando un percorso di crescita e sviluppo alla sua altezza. Davanti a una città, se non moribonda, certamente in grandi difficoltà, abbiamo chiesto aiuto a chi di mestiere vede prima le cose, a chi sa immaginare nuove strade. A loro abbiamo chiesto di indicarci soluzioni, percorsi alternativi, obiettivi concreti. E la risposta è stata magnifica perché tutti e quattordici gli artisti che abbiamo coinvolto sono stati capaci di offrirci una prospettiva originale. Anche con la fotografia abbiamo cercato di dare spazio a una Roma diversa da quella dei cliché. Abbiamo puntato sulle realtà contemporanee più vive e magari sconosciute al grande pubblico, come gli atelier, i musei, i luoghi d’arte più reconditi. Insomma, abbiamo fatto vedere una Città meno nota e altrettanto entusiasmante».

Con il docufilm hai trattato l’arte in molte sue declinazioni, dalla pittura alla scultura, dalla Land Art all’architettura, fino alla fotografia. Perché la scelta di utilizzare la sua totalità? Da cosa credi che provenga il punto di forza degli artisti al fine di un cambiamento sociale?

«La scelta non è partita dai generi. Ho coinvolto artisti con storie creative e professionali, con sensibilità varie proprio per avere punti di vista differenti che dessero allo spettatore e alla Città un ampio ventaglio di stimoli. Il punto comune è stato mettere la cultura al centro di qualsiasi progetto di sviluppo per Roma. Poi, sotto questo ineliminabile ombrello, ciascuno ha offerto letture diverse. La forza degli artisti sta nella loro capacità di visione ulteriore. E il film, alla fine, questa visione la offre. Ora ci vogliono orecchie capaci di sentire e dirigenti in grado di mettere a terra questi stimoli intellettuali».

Secondo te, quale elemento può essere, attualmente e concretamente, d’aiuto per la nostra capitale: l’hic et nunc del processo creativo o la sensibilità, propria degli artisti, declinata in capacità anticipatoria?

«Gestire Roma è un’impresa complicata perché la magnitudo dei problemi, dal personale alle risorse, dall’Ama all’Atac, dalla viabilità alla questione del degrado sociale, è molto alta. Bisogna scomporre i problemi e affrontarli uno ad uno, partendo però da una visione definita su dove si vuole arrivare. Ne La Luce di Roma gli artisti hanno indicato una strada precisa che, come dicevo, è la conoscenza, nel senso più ampio del termine. Ora sta alla nuova giunta capitolina dare un segno di discontinuità con il passato e far vedere di che pasta è fatta. Il Sindaco Roberto Gualtieri e l’Assessore alla Cultura Miguel Gotor hanno una credibilità professionale e personale per cambiare il corso delle cose. Li attendiamo ora alla prova dei fatti, pronti noi stessi a collaborare perché a tutti tocca dare una mano, sperando che partano proprio dall’arte e dalla cultura».

A seguito dei numerosi colloqui tenuti con gli artisti, all’interno dei loro atelier o delle grandi istituzioni museali che li hanno ospitati, in che modo pensi che abitino Roma? Dove risiede il privilegio e dove il limite di questa permanenza?

«Ogni artista vive Roma a modo suo, come del resto molti di noi. Quello che mi è sembrato essere il comune denominatore che li unisce è il desiderio di fare di più. La storia, la tradizione culturale, le vibrazioni e gli stimoli della Città Eterna sono lì a portata di tutti e ciascuno li può riconoscere e utilizzare come più ritiene. Ma per rinascere occorre “eliminare i parassiti”, come dice Piero Pizzi Cannella, e consentire agli artisti di esprimersi a pieno, intervenendo sul territorio con i loro lavori. Lo ricordano un po’ tutti e quel che dicono è emblematico perché, di fatto, dare più opportunità è l’argomento principale del film. Lo sviluppo, come ha sottolineato Pietro Ruffo, alla fine è proprio questo: creare le condizioni affinché la cittadinanza esprima il meglio di sé stessa».

Nel documentario, una delle proposte possibili che sottoponi consiste in un tentativo di destare un interesse artistico rilevante da parte del pubblico, fornendo un invito anche al miglioramento della formazione alla storia dell’arte contemporanea. Come pensi sia possibile attuare questo tipo di impostazione? Quale la sede ideale?

«Questo è uno dei temi di fondo del mio docufilm. Vale per Roma, ma può valere per ogni città o nazione. I luoghi ormai ci sono, quasi dappertutto, ma la questione di base è la formazione, la cultura generale. Bisogna tornare non solo alle accademie e alle università, ma anche alle scuole; lo dicono bene Gianmaria Tosatti e anche Cesare Pietroiusti. Il livello medio di preparazione pubblica è la precondizione della crescita, sia culturale sia economica sia sociale. Bisogna ripartire da qui. Non è un problema di contenitori, ma di contenuti. La sfida, da un lato, è risolvere i problemi gravi che ci affliggono, e questa è la contingenza; dall’altro è crescere partendo dalla gente, dalla consapevolezza e dalla maturità della cittadinanza, e questa è la prospettiva. Per farlo, la cultura è certamente la luce di questa Città, come di tutto il nostro Paese».

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