06 giugno 2022

Sirene di altri mondi: una lettura antropologica di Jíbaro

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Dalla profonda Amazzonia alle profondità della mitologia greca, per celebrare il tragico amore tra la natura e gli esseri umani: una lettura di Jíbaro, episodio sopra le righe della serie Netflix Love, Death + Robots

L’ambientazione amazzonica e i costumi cinquecenteschi di Jíbaro (regia e scrittura di Alberto Mielgo) suggeriscono immediatamente allo spettatore l’epoca della brutale colonizzazione europea del Sudamerica, ma il discorso sull’imperialismo s’inserisce nella più ampia cornice di una riflessione critica sull’antropocene, o meglio sulla civilizzazione come altrettanto brutale conquista della natura: il problema dell’ambiente e della sopravvivenza della specie umana sembra prevalere in tutta la terza stagione di Love, Death + Robots (Netflix), antologia di corti animati incentrata sui destini del rapporto tra esseri umani e tecnologie, per la quale Mielgo aveva già firmato l’episodio “La testimone”. La maniera compositiva di questo nuovo capitolo si allinea al format complessivo ma l’opera di Mielgo non è semplice entertainment e va di molto oltre lo standard degli altri prodotti seriali dello stesso titolo – e non solo per le strabilianti soluzioni estetiche.

L’azione, priva di dialoghi, segue la prospettiva di un soldato sordomuto coinvolto in una spedizione di conquista: il suo esercito, guidato da un’oligarchia monastica, nel mezzo della foresta tropicale si imbatte in una divinità fluviale, una sorta di sirena ma del tutto antropomorfa e ricoperta di metalli preziosi, che con il proprio canto e le proprie sinuose danze acquatiche sa indurre convulsioni e condurre alla follia. I malcapitati finiscono così per scannarsi a vicenda o morire annegati ma la menomazione uditiva consente al soldato sordomuto di essere l’unico sopravvissuto, e finanche di godere per pochi istanti del corpo della sirena amazzonica. L’accoppiamento si consuma sulla soglia della crudeltà: la creatura subacquea concepisce l’amplesso come atto semi-cannibalistico; l’uomo vuole invece spogliarla dell’oro e dei gioielli di cui essa è coperta, tradendo l’avido materialismo a cui è incline per cultura. La sirena assume così i connotati di un angelo castigatore del desiderio sessuale (lussuria) e insieme del desiderio materiale (avarizia).

Il corto di Mielgo presenta un primo livello semantico accessibile e universale: eros pervertito in feroce possesso, inclinazione alla violenza, dominio materiale sulla natura (love, death, robots). Ma dietro gli effetti visivi e gli elementi visionari, si instaura un complesso intreccio tra l’apparato allusivo-metaforico e la mitologia sudamericana, la cui decifrazione necessita conoscenze per lo più estranee al bagaglio culturale europeo. Ragionando in libertà proprio a partire dal titolo dell’opera, Jíbaro, intendo azzardare un sommario percorso nella storia etnologica locale, dalla quale trae origine una lunga parabola di intersezioni tra popoli vicini e lontani, di collisioni traumatiche e sovrapposizioni di modelli culturali, leggende popolari e paradigmi ermeneutici. Una parabola che, tramite molteplici traiettorie, finisce in un modo o nell’altro nel medesimo punto: l’interrogazione sul tecno-antropocentrismo e sul potere imperialistico in senso lato, che scavalca le categorie astratte universali e inquadra un dato “genetico” e storicamente individuato della civiltà occidentale.

 

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Le reti semantiche di jíbaro

L’indagine terminologica si disgiunge di fronte a un bivio: da una parte, la presenza del sostantivo “jíbaro” è attestata nello spagnolo di Porto Rico, dove indica la classe popolare contadina che vive a contatto diretto con la natura, lavorando in autonomia la terra. Il vocabolo deriva tuttavia dalla lingua taina e, in origine, designava in senso collettivo il “popolo della foresta”. In tal modo, questo concetto iconico contiene la duplice accezione di “popolo” sia come classe sociale, sia come comunità dedita a un modo di vivere “autentico”, ovvero preindustriale e in equilibrio con l’ordine naturale.

L’altra occorrenza, pressoché identica sul piano morfo-lessicale, rimanda dai Caraibi al Sudamerica, ma l’associazione arbitraria (a costo di inesattezze filologiche) è giustificata dal fatto che i Taino giunsero sulle isole caraibiche proprio dalla terraferma sudamericana, molto prima dell’irruzione dei colonizzatori europei.

In America del Sud, Jíbaros (o Jívaros) è il dispregiativo affibbiato agli Shuar, gruppo etnico dell’Amazzonia collocabile nell’area tra Perù ed Ecuador. Tuttora in lotta contro la modernizzazione del loro territorio, in passato gli abili guerrieri Shuar seppero resistere tanto all’impero Inca quanto alle invasioni dei conquistadores spagnoli. La strenua, secolare difesa della propria “terra” (intesa come habitat naturale e non come confine politico) è valsa il soprannome di ‘guardiani dell’Amazzonia’. Eppure, l’appellativo “Jíbaros” significa letteralmente “barbari”, “selvaggi” e si riferisce ad alcune pratiche belliche particolarmente cruente, come il rito di mummificare e conservare come trofeo il cranio dei nemici (cfr. Imbelloni/Tagliavini, Treccani).

Ora, la fama di cacciatori di teste, così come le tecniche di guerra, accomunava gli Shuar ai vicini Tupi, etnia amazzone che in era precoloniale occupava l’area nord-ovest del Brasile e che praticava diversi rituali sui corpi dei nemici, tra cui il cannibalismo. Schiavizzati dai colonizzatori iberici, fin dal XVI secolo subirono un’assimilazione forzata alla civiltà occidentale: un processo che oggi riemerge nella cultura brasiliana con residui lessicali e mitici risalenti all’antica lingua e tradizione orale dei Tupi. L’orbita di questo singolo termine, con o senza parentele etimologiche dirette, conduce sulle tracce del secolare passato dei Taino (Porto Rico), degli Shuar (Ecuador/Perù), dei Tupi (Brasile) e del loro patrimonio mitico, scontratosi poi in modo traumatico con la cultura europea.

Da jíbaro al mito di Uiara

Ebbene, esattamente dalla mitologia Tupi sembra derivare la sirena che appare nel corto animato di Love, Death + Robots. Le caratteristiche della creatura disegnata da Alberto Mielgo, infatti, ricalcano la figura di Uiara (o Yara), divinità immortale dei fiumi amazzoni tramutata in ibrido antropomorfo (donna-pesce) dopo la brusca morte per annegamento: la sua bellezza e il suo canto generano un irresistibile richiamo d’amore e morte, preludio dell’assoluta perdita di senno dei sedotti, destinati infine a perdere la vita anch’essi annegando. La leggenda racconta che Uiara fu vittima di soprusi di stampo patriarcale: i fratelli, invidiosi delle sue abilità di guerriera, tentarono di ucciderla ma finirono per soccombere; il padre, per punirla, la affogò nelle acque fluviali.

Se, dunque, la truce vendetta di Uiara tematizza il rovesciamento del potere maschile, allo stesso tempo la sua vicenda attesta una realtà già testimoniata dai colonizzatori e missionari spagnoli: Francisco de Orellana e Gaspar de Carvajal raccontano della presenza di valorose guerriere tra le popolazioni autoctone del Sudamerica, da cui derivò per l’appunto il toponimo Amazzonia, ispirato alle valorose combattenti donne del mito ellenico, delle quali fanno menzione anche gli storiografi greci Erodoto, Strabone e Diodoro Siculo. A questo punto, se è vero che la donna-pesce esiste anche nell’immaginario mitico di popoli asiatici e africani e non solo europei, come si spiega il fatto che le maggiori convergenze si registrino con la cultura greca, ovvero con il racconto omerico di Ulisse e dei suoi marinai che sfidano il canto delle Sirene, e con il motivo eros-thanatos associato a queste mostruose figure?

Uiara incontra Ulisse

Le popolazioni amazzoni, al pari delle altre civiltà, hanno costruito e preservato nel tempo un proprio apparato mitico-religioso: quello dei Tupi non ha mai prodotto una documentazione scritta e non è dunque ricostruibile con esattezza, ma include una teogonia e una cosmogonia che presentano affinità con le mitografie occidentali. L’antropologo scozzese James Frazer definiva la mitologia «Come la filosofia dell’uomo primitivo», il quale, in assenza di nozioni scientifiche, formula il suo «Primo tentativo di rispondere a quelle domande generali riguardanti il mondo» (“Miti sull’origine del fuoco”, 1930).

Sulla base di simili assunti Frazer semplificava quindi le possibili convergenze nei processi mitopoietici di popoli anche lontani tra loro (cfr. “Il ramo d’oro”, 1915). L’approccio darwiniano e positivista di Frazer ne orientava la sua più nota schematizzazione, per la quale magia, religione e scienza sarebbero stadi progressivi di un processo evolutivo della civiltà. Un simile modello teorico, tendenzialmente monoculturale in senso eurocentrico, non deve attendere i giorni nostri per risultare improponibile: già i filosofi della Scuola di Francoforte, intorno alla metà del Novecento, mentre individuavano proprio nella scomparsa del mito il sintomo del declino dell’Occidente civilizzato, confutavano lo scientismo positivista e il tecnocentrismo che sono alla base di una visione antropocentrica del mondo e dell’idea della storia umana come costante progresso (Adorno/Horkheimer, “Dialettica dell’illuminismo”, 1947).

Con maggiore verosimiglianza storica rispetto alle generalizzazioni di Frazer, si potrebbe invece dedurre che le missioni gesuitiche, seguite alle conquiste coloniali, abbiano forzato l’introduzione della cultura europea, favorendo dunque ibridazioni e sovrapposizioni. D’altronde furono proprio i gesuiti a trasferire in forma scritta le credenze e le tradizioni Tupi: non sorprenderebbe dunque che il gap linguistico e i casi di assimilazione culturale possano, all’inverso, aver generato versioni “europeizzate” della mitologia Tupi. Di qui può assumere una logica anche la convergenza con la mitologia greca.

Mosaico di Ulisse e le Sirene, III Secolo, Dougga, Tunisia, conservato al Museo Nazionale del Bardo, Tunisi

Ora, il trucco dell’Ulisse omerico è noto a tutti: tappare le orecchie dei suoi con l’ordine di remare senza guardarsi intorno e, nel frattempo, legarsi all’albero della nave, per non rinunciare al canto delle sirene ed esserne allo stesso tempo immune. Secondo Adorno e Horkheimer è proprio nel mito omerico delle Sirene e nella figura di Ulisse che attecchisce il seme della modernità capitalistica: i suoi uomini sono archetipi dei lavoratori moderni (sordità), che “devono guardare avanti, e lasciare tutto ciò che è lato”; Ulisse, prototipo della classe dominante (immobilità), è il signore “che fa lavorare gli altri” al suo posto, può dunque godere del piacere puramente edonistico del canto senza soggiacere ai suoi effetti schiavizzanti, ma anche senza poter mai raggiungere la felicità promessa dalle Sirene. La sua vittoria sulla natura è il trionfo dell’ingegno, ma è la sconfitta dell’essere umano che si sottomette alla propria facoltà raziocinante, segnando parallelamente l’inabissamento del mito sotto l’ideologia del progresso. In modo complementare, dunque, l’intersezione tra la leggenda Tupi di Uiara e le Sirene dell’epos omerico centra il problema del conflitto tra natura e civilizzazione.

La danza della morte

A differenza di Frazer, l’antropologo Robert Marett si sofferma sulla funzione sociale e collettiva del mito, che si compie nel momento performativo del rituale: «I primitivi danzano la loro religione prima ancora di pensarla» (“The Threshold of Religion”, 1909). Sulla medesima rotta si colloca la figura mitologica di Mielgo: nella sua rielaborazione animata, la danza appare del tutto complementare al canto nelle facoltà magiche della sirena, la cui coreografia (curata dal regista nei minimi dettagli tecnici) trascina come burattini i soldati caduti in balìa dei suoi poteri. Il suo canto è uno stridulo grido che dai timpani penetra fin nella psiche delle vittime, accompagnato da un sinuoso, travolgente ballo dionisiaco eseguito sul pelo dell’acqua (Nietzsche ne sarebbe entusiasta!). La conseguenza è una carneficina fratricida tra soldati – danza, corpi, sangue si mescolano nella corrente del fiume.

L’unico a esservi immune è un sordo per natura e che, dunque, non necessita del trucco di Ulisse per sfuggire al pericolo. Anzi, può persino toccare con mano l’origine del canto: il corpo della sirena. Quest’ultima concepisce l’unione fisica in modo ludico e spontaneo: di notte si agguanta all’uomo dormiente, di giorno gli sfugge con un sorriso ebete ed estatico, quindi si libra su cascate e rocce per lasciarsi raggiungere e, infine, unirsi a lui nell’acqua in un bacio cannibale (la violenza è moderata e parte inscindibile di un amplesso animale). Il soldato la rincorre e sta al gioco ma solo al fine di un calcolato inganno: accetta l’unione sanguigna dei corpi ma la conduce oltre il limite della violenza, spogliando la creatura acquatica dei suoi abiti aurei e umiliando il suo corpo morente.

L’epilogo rovescia sia il mito di Ulisse sia quello di Uiara e, insieme, demolisce ogni equilibrio tra uomo (maschio) e natura. Mentre il fiume si fa torrenziale e si tinge di rosso per il sangue della divinità profanata (o delle migliaia di vittime della sua vendetta ancestrale), il soldato per miracolo recupera l’uso delle orecchie e, stavolta, sono le “inaudite” strilla della natura a trasportarlo in un’estasi furiosa. Proprio quando torna in sé e può godere dell’oro depredato e dell’udito ritrovato, ecco che Uiara, dea immortale, riappare sull’acqua e intona il suo fatale canto: no, il suo è un grido straziante e disperato (quello dell’amore tradito), il suo corpo sovraumano non danza ma si contorce sofferente, la vendetta non è più guidata da un’incontrovertibile legge ancestrale, bensì è una punizione del qui e dell’ora. In quest’ultimo incontro è soltanto il soldato a ballare sopra l’acqua e la sua è una danza della morte: le piroette goffe e ridicole del suo corpo bardato e sferragliante terminano sul fondale del fiume, dove riposerà con i cadaveri dei suoi predecessori.

Jíbaro è in ultima istanza il lamento funebre della natura, che patisce un amore incorrisposto e scaglia, piangendo anche per la sua vittima, la propria sentenza sul suo insensibile amato: l’essere umano, che ha saputo soltanto violarla per imporre con la forza il proprio bieco dominio sul mondo, e persino sulla propria specie.

6 Commenti

  1. Complimenti per la stesura dell articolo, utile a comprendere a fondo l’arte e la semantica di questo cortometraggio. Grazie!

  2. Complimenti! che bello approfondire le cose ogni tanto e permettere all’intrattenimento di essere di nuovo arte, quando ne è all’altezza. Il cortometraggio mi ha sconvolto.

  3. complimenti per l’articolo. a volte dopo una innocua googolata ci si imbatte in queste analisi veramente ben fatte.
    un plauso anche al corto che ci ha scosso nel profondo ( da qui la curiosità della ricerca)

  4. Articolo molto interessante ben scritto e ricco di spunti mi ha fatto pensare alla morte di Dio negli ammonimenti di Nietzsche e più recentemente agli scritti di Byung Chul Han sulla scomparsa dei riti e le conseguenze sull’umano.

    Grazie mille e ancora complimenti

    Il cortometraggio è il più bello delle 3 serie per originalità tematica e livello artistico

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